Ugo Bardi – Febbraio 2005
Si racconta di un tale
che aveva provato a insegnare al proprio asino a non mangiare. Diceva di
esserci riuscito ma che, purtroppo, proprio quando aveva imparato bene, l’asino
era morto.
In termini economici,
la storia illustra come la gestione monopolistica di una risorsa vitale (la
biada) possa fare gravi danni ai consumatori (l’asino). Nel caso del mercato
mondiale del petrolio abbiamo una risorsa altrettanto vitale per la civiltà di
quanto la biada per un asino. L’aumento progressivo dei prezzi del petrolio
greggio, non accompagnato da un corrispondente aumento di investimenti nella
ricerca e produzione di nuove risorse, si può configurare come l’insorgere di
un regime di monopolio, o oligopolio, planetario.
Se questo fenomeno
continua, come del resto è inevitabile dato il progressivo esaurimento dei
pozzi, potremmo assistere nel futuro a una contrazione dei consumi e una grave
recessione economica. Non è detto che l’asino soccomba in tempi brevi, ma
potrebbe dimagrire parecchio.
1. Gli eventi
Cosa sta succedendo al mercato del petrolio? Vediamo un
po’ di storia. Torniamo indietro all’inizio del 1999. Il prezzo del petrolio
era di 10 dollari al barile. Eravamo nel pieno della bolla della nuova
economia. L’entusiasmo era generale, si parlava di crescita infinita. Persino
la conservativa rivista economica “The Economist” si era fatta prendere un po’
la mano preconizzando che “il petrolio a cinque dollari al barile potrebbe
essere dietro l’angolo.”
Torniamo ad oggi, al 2005, e vediamo come le cose sono
cambiate. Il petrolio è a 50 dollari al barile. La bolla economica è scoppiata,
il termine “nuova economia” è uno scherzo di cattivo gusto e le previsioni per
il futuro prossimo non sono per niente rosee.
Non
c’è dubbio che questi aumenti di prezzo devono avere un profondo effetto sull’andamento
dell’economia planetaria. Già al tempo delle grandi crisi che cominciarono nel
1973, l’aumento dei prezzi del petrolio aveva causato una serie di fenomeni
quali recessione, disoccupazione e impoverimento generale di alcuni settori
della società. Gli aumenti attuali non hanno ancora raggiunto i livelli del
culmine della passata crisi nel 1979, dove il prezzo al barile raggiuse, in dollari
attuali, circa 80 dollari al barile. Tuttavia, sono aumenti pesanti e il loro
effetto sull’economia deve ancora farsi sentire in pieno.
Vediamo l’andamento dei prezzi del petrolio greggio negli
ultimi anni (dati da http://www.tfc-charts.w2d.com) :
L’aumento dei prezzi è cominciato all’inizio del 1999 ed
è stato particolarmente rapido e impressionante dall’inizio del 2002 a oggi. Molti
commentatori tendono a spiegare le oscillazioni del mercato come dovuti a
fattori politici (tipo l’onnipresente videocassetta di Bin Laden). Tuttavia, è
evidente dai dati come le date i vari eventi geopoitici degli ultimi anni,
guerre in Iraq e in Afghanistan, attacco alle torri di New York, non sono
correlabili con tendenze ben precise nell’evoluzione dei prezzi.
E’ da notare anche come l’aumento dei prezzi del petrolio
greggio si è trascinato dietro aumenti nei prezzi di altre risorse fossili: il
gas naturale, per esempio (sempre da http://www.tfc-charts.w2d.com).
Anche il carbone ha mostrato notevoli aumenti di
prezzo, come si vede dal seguente grafico (www.sandersresarch.com) (prezzi in dollari per tonnellata)
L’entità globale di questi aumenti è dello stesso ordine
di grandezza di quella del petrolio e si somma ad essa. In generale, il
petrolio rimane comunque tuttora la principale risorsa energetica primaria al
mondo ed è probabile che sia il mercato del petrolio che influisce sui mercati
correlati del carbone e del gas naturale, piuttosto che viceversa.
Per finire, vediamo l’andamento della produzione di
petrolio greggio (dati da www.bp.com)
Dove notiamo che dal 1999 a oggi, la produzione ha
continuato ad aumentare, sia pure fra forti oscillazioni.
Vediamo ora di riassumere l’essenziale di quanto detto:
1.
Dal 1999 a oggi, i prezzi del
petrolio sono aumentati da meno di 15 dollari al barile a circa 50, un aumento
di circa il 250%
2.
La produzione di petrolio
greggio dal 1999 a oggi è aumentata da 26.3 miliardi di barili all’anno (1999)
ai 27.7 miliardi attuali, ovvero di circa il 5%.
2. Il
giro finanziario
La
conseguenza dei fatti esposti nella sezione precedente è un giro fianziario da
capogiro. L’aumento dei prezzi del petrolio si traduce in un mercato che è
passato da circa 400 miliardi di dollari nel 1999 a oltre 1200 miliardi di
dollari nel 2005. Un aumento di circa 800 miliardi di dollari. Se a questo
aggiungiamo il giro del gas naturale e del carbone, siamo a circa 2000 miliardi
di dollari di fatturato e un aumento di quasi 1500 miliardi di dollari in 5anni.
Il
lettore interessato a inquadrare l’entità di queste cifre potrà riflettere sul
fatto che il prodotto interno lordo (PIL) totale del mondo è di circa 51 mila
milardi di dollari. La massa monetaria coinvolta nel mercato del solo petrolio
corrisponde a quasi il 2.5% del PIL mondiale e all’intero PIL di un paese come
la Russia. Il solo aumento nel flusso monetario per tutti i combustibili
fossili corrisponde bene al PIL italiano, circa 1500 miliardi di dollari. Ci
possiamo domandare, dunque, da dove sono arrivati e dove sono andati a finire
tutti questi soldi.
Vediamo
per prima cosa l’origine di questo enorme flusso monetario, che è ovvia. I
soldi arrivano dalle tasche dei consumatori dei prodotti petroliferi, ovvero
dalle nostre tasche. Per esempio, in Italia, si consumano in media 12.2 barili
di petrolio a testa all’anno. L’aumento dei prezzi in dollari per noi è stato
parzialmente assorbito dalla rivalutazione dell’Euro rispetto al dollaro. Anche
così, la spesa è aumentata: per ognuno di noi si possono considerare circa 400
Euro all’anno di spesa petrolifera, un aumento di circa 200 Euro a testa
rispetto al 1999. A questo si deve addizionare la spesa aggiuntiva sul gas
naturale, mentre quella per il carbone rimane per ora piuttosto bassa in
Italia. Sono cifre che non ci mandano in bancarotta ma che certamente pesano
sui bilanci familiari.
Quanto
alla destinazione di queste cifre, la cosa è un po’ più complessa. E’ certo che
le compagnie petrolifere sono le prime a beneficiare di questa pioggia di
dollari, non per nulla negli ultimi anni stanno dichiarando profitti favolosi
(per esempio, la BP ha dichiarato un aumento del 26% dei dividendi per il
2004). Da notare, come rilevato da molti commentatori, che le compagnie
petrolifere hanno scelto di non investire queste somme nella ricerca di nuovi
giacimenti. Il dato seguente, da www.peakoil.net, è illuminante su questo punto. Le barre nere
indicano il costo dell’esplorazione, quelle bianche il ricavo. E’ evidente che la
ricerca di nuovi pozzi di petrolio ha cessato di rendere da qualche anno ed è
impressionante notare come questo fatto rimanga invariato nonostante gli
aumenti stratosferici dei prezzi.
Viceversa,
è noto che buona parte de profitti dovuti agli aumentati prezzi del petrolio sono
finiti nel mercato azionario. Da lì, gli investitori li hanno incanalati verso
i settori che, evidentemente, davano i maggiori profitti. Uno di questi settori
sembra essere quello militare. Secondo i dati dello Stockholm International
Peace Research Institute, (www.sipri.org) l’anno 1999 è stato il giro di boa di una
tendenza che aveva visto le spese militari mondiali in netta diminuzione dopo
il massimo raggiunto nel 1987. Dal 1999 al 2004, le spese sono aumentate di
oltre 180 miliardi di dollari, in parallelo con gli aumenti dei prezzi del
petrolio.
Le
spese militari sembrano aver assorbito una frazione importante dei profitti del
mercato petrolifero. Altri incrementi si trovano in altri settori, per esempio
nel mercato immobiliare. La famosa “bolla immobiliare” che esiste un po’ ovunque
negli stati occidentali potrebbe essere causata dalla ridistribuzione di
risorse monetarie dovuta al petrolio. Vediamo per esempio dati relativi agli
Stati Uniti (da http://housing-bubble.com/images/home-price-index.gif)
In
sostanza, stiamo assistendo a un trasferimento di ricchezza epocale fra settori
diversi della società. Le frazioni economicamente più deboli della società
stessa, che non hanno accesso al mercato azionario, stanno finanziando con le
loro risorse le spese militari e l’arricchimento di settori sociali e
finanziari che erano già privilegiati prima degli attuali aumenti.
3. Le
cause
Vediamo
ora se possiamo suggerire delle ipotesi per questi fenomeni. Che cosa causa gli
aumenti dei prezzi del greggio? E’ ben noto nella teoria economica, come pure
dal buonsenso, che in un libero mercato il costo di un bene varia a seconda
dell’equilibrio fra domanda ed offerta. Per esempio, una siccità in una zona
dove si produce uva causa una riduzione della produzione del vino e un
conseguente aumento dei prezzi. I consumatori berranno meno vino, - magari
berranno birra - ma i produttori avranno un profitto più o meno costante.
Potremmo
pensare che qualcosa di simile stia succedendo nel caso del petrolio, dove la
riduzione nella disponibilità del bene sarebbe causata dal progressivo
esaurimento dei pozzi. Non c’è nessun dubbio che i giacimenti petroliferi
planetari si stiano gradualmente esaurendo. In effetti, se vogliamo essere
precisi, possiamo dire che hanno cominciato ad esaurirsi dal primo barile che è
stato estratto un secolo è mezzo fa. Ma è anche vero che siamo ben lontani
dall’esaurimento inteso come “fine del petrolio”. Tutti gli analisti sono
daccordo che sono disponibili ancora riserve estraibili perlomeno pari alla
quantità estratta fino ad oggi. Ovvero, sono disponibili un po’ meno di 1000
miliardi di barili che, ai ritmi attuali, potrebbero bastare per 35-40 anni.
D’altra
parte, il petrolio dentro i pozzi non serve a niente finché non lo si è tirato
fuori. Quello che conta non è tanto il valore delle riserve sulla carta ma,
piuttosto, la capacità estrattiva del sistema petrolifero o, meglio detto, la
capacità di portare un flusso di prodotti raffinati agli utenti finali, Questa
capacità dipende da cose quali la disponibilità di petroliere, raffinerie,
oleodotti, eccetera. Come abbiamo detto, i dati indicano che la produzione di
petrolio greggio continua ad aumentare dal 1999, sia pure in modo più debole
rispetto al decennio precedente. Si sa anche che esiste una residua “spare
capacity” ovvero eccesso di capacità produttiva, sia pure molto ridotta
rispetto a quello che era qualche anno fa. L’esistenza di questa extra capacità
fa pensare che l’aumento della domanda, da parte soprattutto dei paesi
emergenti come India e Cina, non sia stato ancora tale da mettere in crisi la
capacità del sistema produttivo di soddisfarla. Perciò, l’aumento dei prezzi
del greggio degli ultimi anni non sembra essere direttamente causato da un
problema di scarsità di petrolio.
Che
cosa sta succedendo allora? Un’ipotesi che possiamo fare è che il mercato stia
reagendo non alla scarsità di petrolio ma alla previsione di una futura
scarsità. Se compariamo l’incremento dei prezzi degli ultimi 6 anni con quello
della prima crisi petrolifera del 1973, vediamo che allora l’aumento fu molto
più brusco. In quel caso, tralasciando il folklore diffuso che vuole che la
colpa sia stata di un gruppo di sceicchi cattivi, si sa che l’aumento era stato
dovuto a un problema di effettiva scarsità, ovvero al declino della produzione
dei pozzi nord-americani che aveva reso la produzione insufficiente rispetto
alla domanda. La situazione di predominio della domanda rispetto all’offerta è
durata una decina di anni a partire dal 1973, prima di interrompersi verso la
metà degli anni ’80 con l’ingresso a regime sul mercato dell’Arabia Saudita e
degli altri produttori medio-orientali.
Nel
1973, sembra che il mercato sia stato preso di sorpresa dal cambiamento, di
conseguenza ne sono seguiti aumenti bruschi nei prezzi. Viceversa, a partire
dal 1999, il mercato sembra reagire già al punto critico in cui la domanda si
troverà in eccesso rispetto all’aumento dei prezzi che potrebbe verificarsi
verso il 2005-2007. A proposito di questa reazione “telefonata” ad eventi
futuri possiamo ipotizzare che ci sia in gioco l’effetto di strumenti
finanziari come i futures che negli anni 70 non erano così diffusi come adesso.
Gli operatori, sembra, reagiscono già oggi alla percezione di una futura
scarsità. Questo si trascina aumenti generalizzati dei prezzi anche a breve
termine e sul mercato spot.
Il
meccanismo dei futures viene spesso visto come una scommessa molto rischiosa e
sotto certi aspetti lo è. In realtà, è anche un meccanismo che riduce gli
effetti di fluttuazioni molto ampie nei prezzi. Se si prevede che la domanda
sarà in eccesso rispetto all’offerta entro qualche anno nel futuro, l’aumento
dei prezzi – causato dal meccanismo dei futures –si verifica con buon anticipo e
dovrebbe consentire ai produttori di accumulare profitti da investire
nell’incremento delle capacità produttive. In questo modo si dovrebbe poter
andare preparati incontro agli eventi ed evitare bruschi aumenti di prezzi e
scarsità del bene sul mercato.
Tuttavia,
nel caso del petrolio, questo non si sta verificando. Nonostante gli aumenti
dei prezzi, e di conseguenza dei profitti dei produttori, abbiamo visto prima
come le compagnie petrolifere non stanno
investendo nella ricerca di nuovi giacimenti. La ragione è che, a differenza
della situazione del 1973, non c’è un’altra Arabia Saudita sulla quale spostare
il baricentro della produzione. Cosa sta succedendo allora? La risposta
plausibile è che stiamo vedendo l’inizio della formazione di un oligopolio del mercato del petrolio. Ovviamente,
siamo, in teoria, in una situazione di libero mercato e le varie compagnie
petrolifere sono e rimangono indipendenti, sia le multinazionali (BP, Chevron,
Shell, ecc.) sia quelle nazionali dei paesi medio-orientali (ARAMCO, IOC,
ecc.). Non dobbiamo pensare che i responsabili di queste compagnie si
riuniscano segretamente in qualche stanza fumosa per stabilire di aumentare i
prezzi. Quello che crea l’oligopolio è una situazione di fatto.
“Cartelli”
o oligopoli non sono una cosa nuova nel mercato del petrolio. Già da molti anni
esiste un cartello petrolifero ufficiale, l’associazione chiamata
“Organizzazione dei Paesi Produttori di Petrolio”, OPEC. Lo scopo dichiarato
dell’OPEC è sempre stato quello di mettere un tetto alla produzione per evitare
che il prezzo del petrolio scendesse oltre certi limiti. L’OPEC può essere
riuscita a evitare eccessivi ribassi, ma non è mai riuscita a controllare
veramente i prezzi per via della presenza di produttori non-OPEC e
l’indisciplina degli stessi membri OPEC. Oggi, tuttavia, la situazione è
cambiata e probabilmente l’OPEC ha esaurito il suo scopo.
Gli
operatori cercano, ovviamente, di massimizzare i loro profitti. Un modo per
aumentare i profitti è di aumentare le quote di mercato. Per aumentare le loro
quote di mercato, dovrebbero aumentare la produzione. Nel passato, gli accordi
OPEC tendevano a impedirlo, ma oggi non ce n’è più bisogno. Per aumentare la
produzione i produttori dovrebbero investire grosse somme nella ricerca di
nuovi giacimenti e nella costruzione di nuove infrastrutture. Fanno i loro
conti, vedono che non gli conviene, quindi non lo fanno. Ergo, abbiamo lo sviluppo
di quello che possiamo chiamare un oligopolio di fatto.
4. Le prospettive
Il
progressivo esaurimento delle risorse petrolifere sta creando una situazione dalla
quale possiamo aspettarci soltanto ulteriori aumenti dei prezzi. Questa
situazion ha come effetto il dominio del mercato da parte dei produttori e la
creazione di un vero e proprio “monopolio di fatto”. Il monopolista, si sa, massimizza
il proprio profitto alzando i prezzi il più possibile, anche a costo di vedere
i consumi ridursi. Per il monopolista che controlla una risorsa esauribile,
come il petrolio, la riduzione dei consumi è un ulteriore vantaggio in quanto
allunga la durata delle risorse stesse (vedi su questo punto il famoso commento
di Solow “Il monopolista è il miglior amico dell’ambientalista”).
Può
darsi che l’ambiente guadagni qualche cosa dalla riduzione dei consumi di
petrolio, ma ricordiamoci anche dell’asino della storia e speriamo che il
padrone (il monopolista della biada) non finisca per ammazzarlo riducendogli la
razione ogni giorno. Possiamo anche notare che ci potrebbero essere metodi molto
più rapidi per ammazzare l’asino piuttosto che tenerlo a digiuno. Il
cambiamento climatico globale potrebbe avere un effetto del genere.
Contro
il dominio dei produttori, i consumatori, come l’asino della storia, hanno
poche armi a disposizione. Prendere a calci il padrone affamatore servirebbe a
poco, dato che è lui che detiene il controllo della biada. Peggio ancora
sarebbe collaborare con il padrone, cercando di imparare a mangiare sempre di
meno. L’asino potrebbe essere un po’ grassottello al momento a causa delle
cattive abitudini del periodo di abbondanza precedente e un po’ di cura
dimagrante potrebbe anche fargli bene. Ma, a lungo andare, il risultato finale non
può essere che uno, e questo è il limite di fondo di tutte le misure che
tendono verso il “risparmio energetico”. In pratica, l’unica possibilità per la
povera bestia di evitare un triste destino è di imparare a brucare l’erba e
rendersi indipendente dalla sempre più scarsa biada fornita dal padrone. Nel
caso energetico, liberarsi dallla schiavitù del monopolio petrolifero e fossile
si può fare soltanto sviluppando fonti energetiche che non siano petrolio né
altri fossili.