Di Ugo Bardi
bardi@unifi.it
Pubblicato sul sito “ASPOITALIA” Agosto 2004
Verso la fine degli anni
’90, c’è stata un’esplosione di interesse per il petrolio dell’area del mar
Caspio, con proclami stratosferici sulle immense riserve che sarebbero
disponibili in quella zona. Da allora, queste riserve sono rimaste sulla carta
e sembra che ci siano enormi difficoltà nello sfruttamento effettivo della
zona. Queste note raccontano la storia del petrolio della zona Mar Caspio a
partire dai primi pozzi scavati in quella regione nel diciannovesimo secolo.
Dai dati disponibili, sembra che le stime iniziali siano state molto esagerate,
ma in ogni caso il mar Caspio potrebbe fornire una quantità di petrolio
interessante. Nello sfruttamento di questa zona, la compagnia italiana ENI è in
prima linea in un’impresa che potrebbe essere pagante a lungo termine ma che è
anche molto rischiosa.
Il primo esponente
politico a parlare pubblicamente della scoperta di nuove, “immense riserve” del
Mar Caspio sembra sia stato il vice-segretario di Stato Americano Strobe
Talbott[i]. Talbot usò in
quell’occasione la frase “riserve fino a duecento miliardi di barili di
petrolio.”
200 miliardi di
barili di petrolio è una quantità effettivamente immensa, ma che va messa comunque
in prospettiva. Corrisponde a circa 8 anni di consumo mondiale ai livelli
attuali (circa 25 miliardi di barili all’anno) Si ritiene comunemente che le
rimanenti riserve mondiali di petrolio estraibile (nel 2004) ammontino a circa
1000 miliardi di barili. Se fosse vero che il Caspio ne contiene altri duecento
miliardi, questo vorrebbe dire aumentare del 20% la disponibilità totale, non
poco. Ma l’effetto principale di queste nuove riserve sarebbe di rompere
drasticamente il quasi-monopolio dei paesi dell’OPEC e del Medio Oriente sul
petrolio e questo vorrebbe dire cambiare completamente il quadro geopolitico
della produzione petrolifera mondiale
Ovvio l’interesse
da parte delle compagnie petrolifere per questa possibilità, come pure da parte
dei politici e di chi si occupa di strategia a livello planetario. Tuttavia, se
sulla stampa si continua a leggere di “immense riserve” nel Caspio, non sembra
che il mercato stia per essere inondato di petrolio caucasico; anzi
l’incremento dei prezzi del petrolio, che continua inarrestabile dal 1999
circa, sembra indicare che ci sono grosse difficoltà di approvvigionamento per
il mercato mondiale. L’ingresso sul mercato del petrolio del Caspio sembrerebbe
avere un effetto soltanto marginale sulla disponibilità mondiale di petrolio
greggio.
E’ cambiato
qualcosa rispetto alle speranze di una volta? Cosa c’era di vero nei proclami
di abbondanza? In effetti, sembrerebbe che qualcuno si sia fatto un po’
prendere la mano dall’eccessivo ottimismo e che le cose non siano così rosee
come qualcuno aveva cercato di dare a intendere.
La storia del
petrolio del Caspio, e più in generale della zona del Caucaso, ha le sue
origini nel diciannovesimo secolo. La “febbre del Caspio” era cominciata già al
tempo degli Zar; quando si scavarono i primi pozzi di petrolio vicino a Baku,
nella regione dell’Azerbajan. Nel 1873, Robert Nobel, il fratello di Alfred
Nobel, l’inventore della dinamite e del “premio Nobel” condusse una spedizione
verso sud partendo da San Pietroburgo. Il suo obbiettivo non era il petrolio ma
alberi di noce, il cui legno serviva per fare il calcio dei fucili
dell’esercito dello zar. Invece, a Baku sulla riva del Caspio, trovò
un’industria petrolifera già operante. I Nobel investirono in questa industria,
sviluppandola considerevolmente. Alla fine del diciannovesimo secolo, Baku era
l’area di maggior produzione di petrolio del mondo, superando anche l’industria
petrolifera Americana del tempo.
A quel tempo, il
petrolio serviva principalmente per l’illuminazione e le lampade dei nostri
bisnonni nell’Europa occidentale erano quasi certamente accese con il petrolio
fornito dall’industria estrattiva del Caucaso. Con lo sviluppo del motore a
scoppio, verso la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo, il
petrolio cominciò a essere usato sempre di più come carburante. Il valore
strategico dei giacimenti del Caucaso era già importante nella prima guerra
mondiale, quando la carenza di petrolio fu uno dei fattori che causò la
sconfitta degli imperi centrali. Ma divenne evidente con la seconda guerra
mondiale, sotto molti aspetti storicamente la prima, vera “guerra per il
petrolio”.
Quando i tedeschi
invasero la Russia, nel 1941, uno dei loro obbiettivi strategici prioritari
erano i giacimenti petroliferi del Caucaso. Raggiungerli, avrebbe significato
per loro sia ottenere un rifornimento importantissimo per il loro esercito, sia
negare lo stesso rifornimento ai Russi. In entrambe le grandi offensive contro
la Russia, nel 1941 e 1942, i tedeschi cercarono di avanzare verso il Caucaso. Alla
fine del 1942, la battaglia di Stalingrado, che si trovava sulla strada per il
Caspio, mise la parola fine a ogni tentativo dei tedeschi di impadronirsi dei
pozzi del Caucaso. Hitler aveva detto che senza il petrolio del Caucaso non
avrebbe potuto continuare la guerra. I tedeschi riuscirono comunque a resistere
ancora un paio di anni usando benzina sintetica ottenuta a partire dal carbone.
Non servì comunque a nulla, se non a causare ulteriore sofferenze e miseria a
tutti.
Dopo la seconda guerra mondiale, l’espansione industriale dell’Unione Sovietica cominciò a trovare delle difficoltà nel rifornirsi esclusivamente con il petrolio del Caucaso. Dal 1950 in poi, si svilupparono pertanto soprattutto le riserve degli Urali, la regione del Volga, e della Siberia Orientale. Furono queste riserve che resero l’unione sovietica il più grande produttore di petrolio al mondo, fino al 1990 circa.
Verso la fine
degli anni ’80, la produzione sovietica di petrolio cominciava a mostrare segni di difficoltà: diventava
impossibile continuare ad aumentare la produzione agli stessi ritmi degli anni
precedenti. Nel 1991 fu raggiunto il culmine e l’inizio del declino. Allo
stesso momento, si ebbe il crollo dell’Unione Sovietica stessa. Ci sono
molteplici interpretazioni sulla ragione di questo crollo, ma si sta facendo
strada l’idea che il declino della produzione di petrolio non fu una
conseguenza, ma una delle principali cause del crollo della struttura politica
che era stata creata, sostanzialmente, per sfruttarlo[ii].
Già l’analisi
storica dovrebbe cominciare a metterci in guardia su certi elementi poco chiari
della situazione delle zone del Caucaso. In generale, trattandosi di giacimenti
ormai molto sfruttati, in effetti da oltre un secolo, non ci dovrebbe stupire
il fatto che abbiano passato il loro picco di produzione e abbiano cominciato a
declinare a partire dal 1950 circa. Lo stesso è successo con le riserve
americane della Pennsylvania, le prime storicamente ad essere sfruttate, che
sono oggi praticamente esaurite.
Tuttavia, gli
occidentali si sono avvicinati con un certo interesse alla zona del Caspio dopo
la dopo la caduta dell’Unione Sovietica, probabilmente confidando che la loro
superiore tecnologia avrebbe potuto servire per estrarre petrolio non
accessibile ai sovietici. Gia nel 1985, Harry E. Cook, dell’United States
Geological Survey (USGS), aveva cominciato a esplorare l’Asia centrale in vista
di nuove possibili riserve petrolifere.[iii] Piu’ tardi, sotto la
guida di Cook, si formò un consorzio chiamato “USGS-Kazakhstan-Kyrgyzstan Oil
Industry project” che comprendeva già l’ENI/AGIP oltre a BG, BP, ExxonMobil,
Inpex, Phillips, Royal Dutch Shell, Statoil, TotalFinaElf e diversi istituti di
ricerca ex-sovietici.
Si sa che il
primo contratto per l’esportazione in Occidente del petrolio del Caspio fu
firmato nel 1994. Lo sfruttamento di questo petrolio era comunque molto
difficile a causa della posizione geografica della zona e fu necessario
aspettare il 1999 prima che ai potesse veramente cominciare a esportare
petrolio attraverso l’oleodotto Baku-Novorossiisk, che termina sul mar Nero. Da
li’ il petrolio può essere trasportato attraverso i Dardanelli mendiante
petroliere convenzionali.
La faccenda “Caspio”
esplose veramente nel 1997 con la pubblicazione di un rapporto del Dipartimento
di Stato Americano: (U.S. Department of State, Caspian Region Energy Development
Report, April 1997). In questo rapporto, si trovava la seguente tabella:
L’ammontare delle
“possibili” riserve era stimato a un ragguardevole valore di 178 miliardi di
barili di petrolio. Non è chiaro cosa intendessero gli autori con il termine
“possibili,” Nella pratica di rendicontazione delle riserve petrolifere, si usa
il termine “riserve possibili” ma normalmente lo si accoppia con una stima
probabilistica, di solito il 5%. Anche ammesso che questa fosse stata l’intenzione
di chi ha steso il rapporto, è difficile dire che senso abbia avere “una
probabilità del 5% di trovare 178 miliardi di barili.”
Da quello che se
ne sa, il rapporto del dipartimento di Stato era derivato dal lavoro di Cook,
secondo il quale il giacimento di Kashagan poteva contenere fino a 50 miliardi
di barili, valore che qui era stato, apparentemente, ulteriormente gonfiato a 85
miliardi.
Come abbiamo
detto all’inizio, era il vice-segretario di stato Americano Talbot a dare
inizio alla fanfara sulla base di questi dati, approssimando per eccesso a 200
i miliardi di barili disponibili. Dopo di lui, è stato tutto un coro di
“immense riserve,” di confronti con l’Arabia Saudita, di raccomandazioni di
sviluppare la zona il più presto possibile. Altri autori che hanno gonfiato il
numero fino a 250. Gonfiare le riserve petrolifere per farle sembrare più
allettanti è un giochetto facilissimo, lo si può fare facilmente tenendo conto
dell’ambiguità del concetto di “possibili” Non si conta, per esempio, il numero
di volte in cui è stato detto che le riserve dell’Arabia Saudita o quelle
dell’Iraq si sarebbero potute facilmente “raddoppiare” semplicemente andando a
fare un po di trivellazioni nel deserto, vedi per esempio l’articolo di Paul
Klebnikov su Forbes, 28 Ottobre 2002, tutto basato sulle “rivelazioni” di Fadhil
Chalabi, ministro del petrolio del governo Hussein in Iraq e cugino del molto
chiaccherato Ahmed Chalabi, possibile prossimo dittatore dell’Iraq.
A parte i proclami gonfiati, comunque, era ovvio l’interesse delle compagnie
petrolifere per una zona che, almeno potenzialmente, poteva contenere riserve
importanti. In 1998, nove compagnie petrolifere internazionali formavano un
consorzio chiamato OKIOC (Offshore Kazakhstan International Operating Company)
con lo scopo specifico di sfruttare le riserve menzionate nel rapporto del
Dipartimento di Stato.
Mentre si
lavorava all’esplorazione, i dati disponibili venivano ulteriormente elaborati.
Nel 2000 la USGS diffuse un rapporto a firma del Dr. Thomas Ahlbrandt, che è
rimasto famoso per arrivare a una stima delle riserve disponibili almeno il 50%
maggiore di tutte le stime precedenti. Questo rapporto è stato criticato da
molti esperti e contraddetto dall’andamento dei ritrovamenti successivi, ma
rimane un’altra delle stime che hanno portato al mito del Mar Caspio
Tuttavia, la
storia dei “200 miliardi di barili” aveva cominciato a suscitare dubbi fin dal
primo momento in cui era venuta fuori. Già
nel 1997, un rapporto di Laurent Ruseckas al congresso segli Stati Uniti[iv] ridimensionava nettamente
la faccenda parlando di un “possibile massimo” di 145 miliardi di barili,
valore che andava preso comunque come un estremo improbabile, con un valore
massimo ragionevole intorno ai 70 miliardi di barili. Ruseckas sottolineava
anche che qualcuno si stava facendo prendere da un eccessivo entusiasmo.
Nel 1998, un
certo scetticismo aveva cominciato a diffondersi sulle stime esagerate relative
al petrolio del mar Caspio. Un articolo del 1998 del Time magazine affermava
che se queste stime fossero state esatte, la regione del Caspio avrebbe potuto
contenere “l’equivalente di 400 giacimenti giganti, ” eppure esistono al mondo
soltanto 370 giacimenti giganti[v]. Nel 1999, un rapporto
presentato al gruppo SPD del parlamento tedesco[vi] si intitolava, significativamente
“Non più il ‘grande gioco’ nel Caspio” In una sezione di questo rapporto,
Friedemann Muller affermava chiaramente che: “La cifra riferita spesso –
preferibilmente da uomini politici di una certa età – di 200 miliardi di barili
è un prodotto della fantasia”.
La faccenda delle
riserve gonfiate appariva anche nella stampa popolare, per esempio, in un
articolo del “NOW” di Toronto dell’11 Novembre 2001, Damien Cave definiva come
“Follemente ottimistiche” le stime di 200 miliardi di barili nel Caspio.
perlomeno nei prossimi venti anni”
Verso la fine del
2001, la situazione era ormai chiara, almeno agli occhi degli esperti. Colin
Campbell, esperto di fama mondiale nel campo, la riassumeva così (comunicazione
privata direttamente all’autore).
“Circolavano voci che la zona
contenesse oltre 200 Gb [miliardi di barili] di petrolio (penso che quelle voci
venissero dall’U.S. Geological Survey), ma i risultati dopo dieci anni di
lavori sono stati deludenti. Già nel 1979, i Sovietici avevano trovato il
giacimento di Tengiz, sulla terraferma, nel Kazakhstan. Contiene circa 6 miliardi di barili di petrolio in una scogliera di
calcare a una profondità di circa 4500 m, Questo petrolio contiene, tuttavia,
fino al 16% di zolfo, il che era troppo persino per l’acciaio sovietico, per
cui scelsero di non sfruttare il giacimento. Dopo la caduta dell’Unione
Sovietica, arrivarono la Chevron e altre compagnie americane che sono riuscite
a estrarre quel petrolio, ma con molte difficoltà e ad alti costi sia economici
che ambientali.
Più tardi, in una serie di rilevamenti fatti sul fondo
del Mar Caspio, si trovò un’enorme struttura a circa 4000 metri di profondità
che sotto molti aspetti somigliava a quella di Tengiz. Quest’area (Kashagan) aveva anche delle
caratteristiche geologiche simili a quelle del giacimento gigante di Al Ghawar,
in Arabia Saudita. Se fosse stata piena, avrebbe potuto contenere
effettivamente 100 miliardi di barili o forse più e fare concorrenza ai pozzi
sauditi.
A quel punto, un uomo d’affari americano, Jack
Grynberg, mise insieme un grosso consorzio di compagnie petrolifere che
comprendeva BP, Statoil, Total, Agip, Phillips, British Gas e altri (OKIOC,
n.d.a.). Questo consorzio si proponeva di sfruttare i giacimenti che si pensava
esistessero in questa struttura.
Le
trivellazioni esplorative sono state enormemente difficili. Il giacimento era
offshore, quindi era difficile e complesso trasportare nella zona
l’attrezzatura. Inoltre, quelle acque erano una zona riproduttiva per gli
storioni che producono il caviale russo. Per finire, il clima invernale
dell’area è rigido con formazioni di ghiaccio sulla superficie dell’acqua e
venti molto forti. Alla fine, a un costo di 400 milioni di dollari, il
consorzio riuscì a trivellare un pozzo profondo 4500 metri nella zona più a est
della struttura. Ne è seguito un silenzio tombale, seguito poco tempo dopo dal
ritiro dall’impresa di Bp e di Statoil. La British gas ha comunicato in un suo
rapporto che il giacimento potrebbe contenere fra i 9 e i 15 miliardi di
barili. La ragione è che, – diversamente da Al Ghawar – il giacimento è molto
frammentato con i giacimenti separati da rocce di bassa qualità. Si tratta di
un giacimento interessante ed è certo che si potranno trovare ulteriori
riserve, ma non è certamente in grado di avere nessun effetto significativo
sulle disponibilità mondiali. C’è molto gas nelle vicinanze, ma le difficoltà
di trasporto sono immense.”
Il consorzio OKIOC
messo insieme da Jack Grynmberg comprendeva in effetti ENI, BP, BG, ExxonMobil,
Inpex, Phillips, Shell, Statoil, e TotalFinaElf con l’accordo del presidente
del Kaakhstan Nazarbayev. Il consorzio cominciò ad andare a pezzi dopo le prime
trivellazioni esplorative. Alcuni dei membri si ritirarono: al 2003 se ne erano
andati ExxonMobil, Statoil, BP, e BG. L’Agip era rimasta e diventava
l’operatore principale del consorzio. Nell’aprile del 2002, Gian Maria
Gros-Pietro, allora il presidente dell’ENI, parlando all Eurasian Economic
Summit in Almaty, Kazakhstan, dichiarava che l’intero Caspio poteva contenere
soltanto 7-8 miliardi di barili
La stima di
Gros-Pietro era forse pessimistica. Altri hanno stimato fino a 13 Miliardi di
barili per il solo giacimento di Kashagan. Per tutta l’area intorno al Mar
Caspio, si parla di valori fra i 30 e i 50 miliardi di barili. Sono riserve non
certamente trascurabili ma, per metterle in prospettiva, anche l’ipotesi più
ottimistica corrisponde solo al 5% della disponibilità di petrolio estraibile
mondiale e a circa due anni di consumo mondiale ai ritmi attuali. Se si
considerano gli immensi costi e la difficoltà di trasportarlo dal centro
dell’Asia, si vede come la faccenda non è proprio una cornucopia di abbondanza.
Tuttavia,
nonostante le smentite e l’ovvio risultato di applicare soltanto un po’ di buon
senso ai dati, il concetto dei “200 miliardi di barili” aveva fatto presa fin
dal 1997. Da sinistra, le “immense riserve” del Caspio venivano citate come
prova del malvagio imperialismo occidentale. Da destra, si strepitava per far
si che si mettessero le mani quanto prima su quel ben di dio.
Come un esempio
degli effetti della leggenda ancora diversi anni dopo che i dati avevano
dimostrato la falsità delle stime esagerate, possiamo citare il discorso che il
senatore statunitense Conrad Burns tennne alla “Heritage Foundation” Il 19
Marzo 2003[vii]
Nel suo discorso,
il senatore Burns cominciava giustamente stigmatizzando la dipendenza degli
Stati Uniti dal petrolio Medio-Orientale. Da li’, la logica avrebbe voluto che
proponesse lo sviluppo di nuove fornti energetiche locali. Invece:
Internazionalmente, il
nostro paese sta ignorando le opportunità che ci sono in Russia e nel bacino
del mar Caspio, Nell’area del Mar Caspio, sono state trovate riserve fino a 33
miliardi di barili, un potenziale più grande di quello degli Stati Uniti e il
doppio di quello del Mare del Nord. Le stime parlano di ulteriori 255 milardi
di barili di riserve nel Caspio. Queste riserve potrebbero rappresentare fino
al 25% delle riserve provate mondiali. La Russia potrebbe avere riserve anche
più abbondanti.
Questi numeri
sono tutti sbagliati. Tanto per dirne una, le riserve del Mare del Nord sono
stimate a circa 50 miliardi di barili, e 33 non è certamente il doppio di 50. Quanto
poi ai “255 miliardi di barili”, sommati agli altri 33 fanno un totale di 288
miliardi di barili, che è fuori da ogni grazia di Dio.
Non si capisce
dove e come quelli che hanno scritto questo discorso al sig. Burns possano aver
trovato (e aver preso per buoni) questi numeri. Hanno dato, appunto, “i
numeri”. D’altra parte, è chiaro che molti politici non sembrano preoccuparsi
particolarmente dell’accuratezza di quello che raccontano. Sembre rimanendo con
il senatore Burns, in un precedente discorso[viii], fatto all’Heritage Foundation
prima dell’attacco all’Iraq, aveva detto che
Ritengo che non ci dovrebbe
essere nessun dubbio da parte di chicchessia che Hussein è una minaccia diretta
e imminente agli Stati Uniti
Vale la pena di
citare queste affermazioni, se non altro per domandarci cosa passa veramente
per la testa di chi è nella posizione di prendere delle decisioni gravi e
importanti, decisioni che implicano portare o non portare intere nazioni alla
guerra o che comunque decideranno il destino di interi popoli. Il senatore
Burns si era fatto veramente convincere dallo show di Colin Powell alle Nazioni
Unite fino a credere senza nessun dubbio alla storia delle armi di distruzione
di massa? Oppure sapeva benissimo che era un imbroglio ma non poteva dirlo per
ragioni politiche? Qualunque delle due ipotesi sia vera, la stessa domanda si
applica alla questione del petrolio del Mar Caspio.
Dati questi
elementi su cui riflettere, sembra acquisire un certo peso anche l’ipotesi,
apparentemente paranoica, che almeno uno dei motivi che hanno spinto gli Stati
Uniti ad attaccare l’Afghanistan nel 2001 sia stato di liberare il campo al
passaggio di un oleodotto. E’ ben noto, e lo si può leggere perfino nelle
enciclopedie[ix],
che l’attacco all’Afghanistan era stato pianificato ben prima dell’attacco alle
torri gemelle di New York nel Settembre del 2001. Semebrerebbe che i piani di
attacco siano stati fatti in un periodo in cui le trivellazioni del Caspio non
avevano ancora rivelato che i famosi “200 miliardi di barili” erano fantasia.
E’ difficile dire
se, al tempo dell’attacco all’Afghanistan, ci fosse ancora qualcuno al governo
degli Stati Uniti che credeva veramente
che le riserve del mar Caspio fossero un “nuovo Medio Oriente.” E’ anche
possibile che le riserve del Caspio siano state intenzionalmente gonfiate per
forzare l’impegno militare e strategico degli Stati Uniti nella zona, più o
meno nello stesso modo in cui la falsa minaccia delle “armi di distruzione di
massa” era stata creata per forzare un intervento militare in Iraq.
Comunque sia
andata, dal 2002 in poi l’Afghanistan è scomparso come zona di interesse strategico
per essere sostituito dall’Iraq. Le riserve petrolifere dell’Iraq (circa 120
miliardi di barili) non sono fantasia, anche se per scopi propagandistici sono
state esagerate. Senza addentrarci troppo in speculazioni geopolitiche, diciamo
che, perlomeno, ci sono delle coincidenze e delle concatenazioni curiose in
questa storia.
Rimane, a questo
punto, da considerare il futuro dei giacimenti del Caspio, soprattutto in vista
dell’impegno della compagnia nazionale italiana, l’ENI. In effetti, l’ENI
sembra avere una visione molto ottimistica della faccenda. Vediamo l’articolo
pubblicato recentemente su ”Science”[x] da Leonardo Maugeri, vice
presidente del settore “Corporate Strategies” dell’ENI (traduzione dell’autore).
Consideriamo, per esempio,
la frontiera più recente del petrolio nel mondo, il Kazakhstan, e la scoperta
principale; il giacimento gigante di Kashagan. Le stime geologiche a proposito
dell’area intorno a Kashagan (nel nord del mar Caspio) sono esistite per
decenni, ma hanno soltanto indicato la possibilità di depositi di idrocarburi.
Dopo che si realzzò il primo sondaggio geologico da parte di compagnie
petrolifere internazionali nella seconda metà degli anni 90, si ritenne che
l’area poteva contenere fra i 2 e i 4 miliardi di barili. Nel 2002, dopo il
completamento di due pozzi esplorativi e due pozzi di assaggio nel giacimento
di Kashagan, le stime furono aumentate a 7 - 9 miliardi di barili
estraibili. Nel Febbraio 2004, dopo altri quattro pozzi esplorativi
nell’area, sono state aumentate ancora a 13 miliardi di barili. Questo è solo
l’inizio, dato che l’area copre oltre 5500 chilometri quadrati e sei pozzi
esplorativi sono solo una modesta indicazione del potenziale futuro dell’area,
Inoltre, ci sono molti altri giacimenti ancora da esplorare in quest’area,
(incluso Kairan, Aktote, and Kalamkas), che hanno strutture geologiche simili a
quella di Kashagan.
Questo brano è un
discreto esempio di sottigliezza. Maugeri
racconta tutte cose vere, ma sceglie di raccontare soltanto quelle cose che
provano la tesi che vuol dimostrare. Maugeri fa vedere come le stime delle
riserve del giacimento di Kashagan siano aumentate nel tempo, fino a 13
miliardi di barili, senza mai citare le famose stime dei “200 miliardi” di
barili, e nemmeno quelle, più ragionevoli, di Cook che parlavano comunque di 50
miliardi di barili.
E’ ben noto come
i metodi di contabilizzazione dell’industria petrolifera portino a questo
apparente incremento dell’ammontare delle risorse. Quando si individua una zona
promettente, si fa una stima di massima delle riserve che la zona potrebbe
contenere (appunto, il caso della stima iniziale di 50-85 miliardi di barili per
Kashagan). Via via che il giacimento viene esplorato, le riserve “provate” aumentano
a spese della stima delle riserve totali (risorse) che sono la somma delle
riserve provate, delle riserve “probabili”, e delle riserve “possibili”. Solo
quando il pozzo è stato completamente sfruttato si sa abbastanza esattamente
quanto petrolio c’era dentro.
Ne consegue che
l’aumento progressivo delle “riserve provate” non implica affatto che si
facciano delle nuove scoperte inaspettate. Nel caso di Kashagan, Maugeri mostra
come le riserve provate aumentino, come succede sempre, anche se come abbiamo
visto (e come Maugeri non dice) questo fatto non ha niente di sorprendente e
non prova alcunchè. Maugeri non dice che, in effetti, l’esplorazione ha portato
a una consistente riduzione delle stime
del totale delle riserve estraibili.
Notiamo anche altri
dettagli del pezzo di Maugeri dove i dati riportati sono parziali e che
potrebbero portare il lettore a fraintendere. Per esempio, Maugeri cita i tre
giacimenti di Kairan, Aktote, and
Kalamkas, dicendo che hanno strutture geologiche simili a quella di Kashagan.
Non riportando un riferimento e non dicendo niente a proposito delle dimensioni
di questi giacimenti, il lettore potrebbe essere portato a pensare che siano di
grandezza paragonabile a Kashagan. Invece, sono aree molto più piccole.
Contengono petrolio, senza dubbio, ma in quantità modeste[xi].
Infine, tutto
l’articolo di Maugeri e teso a dimostrare che il petrolio a livello globale è
abbondante e l’esempio del giacimento di Kashagan è utilizzato per rinforzare
questa tesi. Tuttavia Maugeri non comfronta mai le risorse di Kashagan con il
consumo mondiale e non si preoccupa di informare il lettore che i 13 miliardi
di barili citati basterebbero all’incirca per soli sei mesi di consumo
mondiale.
L’articolo di
Maugeri su Science soffre di un’evidente impostazione ”abbondantistica”, ovvero
del tentativo di voler dimostrare a priori che le riserve petrolifere
planetarie rimanenti sono talmente abbondanti da non causare nessun problema di
disponibilità. Non ci addentriamo qui su una critica di questo atteggiamento che
ha, comunque, illustri precedenti a partire da quel Julian Simon che nel suo
libro “The ultimate resource” (1981) aveva tranquillamente parlato di “risorse
infinite”. Su questo soggetto, sembrerebbe che una buona frazione di chi si
occupa dell’argomento abbia idee
preconcette e che proceda poi a selezionare fatti in modo da sostenerle.
Il punto
interessante comunque, è quali siano esattamente gli obbiettivi dell’ENI nel
Caspio. In una situazione mondiale estremamente difficile per la riduzione
della produzione in molte aree, accoppiata con l’aumento della domanda, come
mai diverse compagnie del gruppo OKIOC si sono ritirate lasciando Kashagan in
mano al capofila Agip/ENI? Da quello che sappiamo, Kashagan si è rivelato alla
fine una delusione rispetto alle aspettative, ma è pur sempre un pozzo gigante,
uno di quelli che si fanno sempre più rari.
Si tratta qui di
capire quali possano essere i piani e gli obbiettivi di una compagnia
petrolifera come l’ENI che, da quando è stata trasformata in una società per
azioni, nel 1992, ha la possibilità di gestire in modo indipendente le proprie
priorità sul mercato internazionale. L’ENI si trova, in effetti, a potersi
confrontare quasi ad armi pari con le altre maggiori compagie petrolifere. Oggi
l’attore più importante in questo campo è l’americana Exxon Mobil, seguita
dall’olandese Royal Dutch Shell, dall’inglese Bp, dalla Chevron Texaco, dalla
francese TotalFinaElf, dalla Conoco Phillips, con l’Eni in settima posizione.
In una situazione
di estrema complessità come quella che caratterizza il mercato internazionale,
sembrerebbe che l’ENI stia puntando a qualcosa che potremmo vedere come
un’azione sullo stile di quelle di Enrico Mattei ai suoi tempi, ovvero puntare
aggressivamente su aree e regioni dove la situazione politica potrebbe
svantaggiare la concorrenza americana. Mattei aveva puntato molto sull’Iran di
Mossadeq, l’ENI di Vittorio Mincato potrebbe seguire linee simili con l’Asia
Centrale e, ancora, con l’Iran.
"Dobbiamo
crescere - dichiarava Mincato il 17 novembre 2001 a "Il Sole-24 ore"
Vogliamo entrare nel gotha delle super major. Ci arriveremo sia attraverso le
acquisizioni sia grazie ai risultati delle nostre esplorazioni". Come
tutte le azioni aggressive, si tratta di prendersi dei grossi rischi
scambiandoli con la possibiltà di grandi guadagni. In questo tentativo, il
giacimento di Kashagan diventa il punto pivotale sul quale si fallisce o si ha
successo. Il successo non è assolutamente automatico, come abbiamo visto,
compagnie importanti come la BP ela BG hanno deciso che, evidentemente,
Kashagan era un rischio troppo alto per meritare i loro investimenti.
Molte cose
potrebbero, in effetti, andare storte con lo sfruttamento di Kashagan e degli
altri giacimenti sul fondo del Mar Caspio. Abbiamo già accennato alle
difficoltà tecniche per estrarre petrolio localizzato a grande profondità,
sotto il mare, e in una zona dal clima terribile. Tutti questi problemi si
possono risolvere dal punto di vista tecnico, ma ad alti costi. In aggiunta, c’è
il costo dovuto al trasporto del petrolio a grandi distanze sulla terraferma
(intorno ai 3-4 dollari al barile). In pratica, il petrolio del Caspio costa
molto più caro – per esempio – del petrolio iracheno o saudita, che si trova a
poca profondità e non lontano dai terminali di esportazione.
Nell’attuale
penuria di petrolio, sembrerebbe che gli alti prezzi di mercato favoriscano
senz’altro il petrolio del Caspio. Anzi, sembrerebbe che più aumenta il prezzo
del petrolio, maggiori sarebbero i profitti per i produttori del Caspio. Le
cose, tuttavia, potrebbero non essere così semplici. Potrebbe entrare in gioco,
in effetti, quel fattore che l’economista americano Reynolds ha chiamato il
“sussidio entropico”[xii] e che altri chiamano
“ritorno energetico dell l’energia investita” (EROEI)
Il concetto del
sussidio entropico, o EROEI è che il costo l’estrazione di una risorsa minerale
non è indipendente dai valori di mercato della risorsa stessa. Ci vuole energia
per estrarre petrolio da un pozzo; questa energia è il “sussidio” o l“EROEI”.
Il costo energetico si traduce in costi monetari. Per estrarre petrolio da un
pozzo a piccola profondità, come per esempio in Arabia Saudita, questa energia
è piccola, quindi questo costo è basso. Detto in altri termini, l’EROEI dei pozzi
sauditi è alto. Il contrario si verifica per quanto riguarda i pozzi del
Caspio.
Se il prezzo di
mercato internazionale del petrolio aumenta, aumentano anche tutti i costi
necessari per estrarre e trasportare il petrolio, per esempio l’energia che va
alle pompe di estrazione, l’energia necessaria per le trivellazioni, l’energia
per pompare il petrolio negli oleodotti, eccetera. Se l’EROEI del Caspio si
rivelasse particolarmente basso, potrebbe non essere mai veramente un buon
affare estrarre il petrolio da quella zona, anche se (oppure specialmente se) i
prezzi del petrolio sul mercato mondiale salissero a livelli stratisferici.
Un altro fattore
correlato alla questione del Caspio è la situazione politico-strategica. Qui
abbiamo a che fare con un’estensione di quello che nell’ 800 si chiamava “il
grande gioco,” (termine a volte è ancora noto nella versione russa “Bolshoya
Ikra”) ovvero la competizione fra le grandi potenze per dominare una zona ricca
di risorse. Nell’800, i protagonisti erano gli Inglesi e i Russi, come
descritto nel romanzo di Kipling “Kim”. Oggi gli Stati Uniti sono entrati
prepotentemente nella competizione. La regione comprende inoltre l’Iran, la
Turchia, le tre repubbliche del Caucaso (Armenia, Georgia e Azerbaigian) e le
cinque repubbliche centroasiatiche (Kazakistan, Turkmenistan, Uzbekistan,
Kirghizistan e Turkmenistan), tutte nate dalla dissoluzione dell'Impero
sovietico.
In questa
situazione, le problematiche politiche e strategiche sono enormemente complesse.
Le distanze favoriscono i competitori locali; sia le repubbliche che tendono a
far pagare care le loro risorse, sia i Russi che, ovviamente, non hanno
intenzione di farsi portar via dagli Occidentali le riserve di una zona che,
fino a non molti anni fa, controllavano completamente.
Nella pratica, la
competizione si esplicita non tanto sul controllo diretto dei giacimenti, ma
sul controllo degli oleodotti, il vero collo di bottiglia del petrolio
caucasico. Il fulcro strategico del trasporto di petrolio dalla zona dovrebbe essere
il cosiddetto oleodotto AGT, fra Azerbaigian, Georgia e Turchia, articolato nel
BTC (Baku, Tiblisi, Ceyhan), oleodotto lungo 1.760 km che parte dalla capitale
armena Baku e arriva, attraversando la Georgia, al terminale turco di Ceyhan,
nel Mediterraneo, e nel SCP, gasdotto del sud del Caspio che dovrebbe portare
il gas da Baku al terminale turco di Erzurum. Nei piani americani (e inglesi)
all'AGT si dovrebbe connettere un altro ambizioso progetto, il TCP (Trans
Caspian Project), gasdotto sottomarino che dovrebbe portare a Baku e quindi ai
terminali turchi il gas turkmeno, kazako e uzbeko. Un’alternativa possibile a
queste linee sarebbe un oleodotto attraverso l’afghanistan, ma di questo, come
abbiamo detto, non si parla più dal 2002, probabilmente per via delle distanze
enormi e della situazione politica estremamente instabile delle regioni
attraversate.
Per contrastare i
piani occidentali, i Russi si sono mossi con costruzione del KTK, l'oleodotto
entrato in funzione nell'ottobre 2001 che porta il greggio del Kazakistan al
terminale russo di Novorossijski nel Mar Nero. Questo è, attualmente, il solo
oleodotto operativo che trasporta il petrolio Caucasico ed è sotto il controllo
dei Russi. Inoltre, i Russi stanno costruendo il gasdotto "Blue
Stream" che una volta ultimato porterà il gas russo in Turchia attraverso
il Mar Nero. I Russi hanno grandi riserve di gas e sono molto attivi nella
costruzione di oleodotti e gasdotti.
Il “grande
gioco”, come si vede, consiste nel controllo indiretto (attraverso gli
oleodotti) delle riserve dell’Asia centrale e nel rifornimento di gas verso le
economie crescenti di India e Cina, come pure verso l’Europa Occidentale. Non è
uno scherzo dal punto di vista strategico; chi riuscira a dominare il
rifornimento di queste aree sarà in buona posizione per dominare l’economia
planetaria del ventunesimo secolo. In questa lotta fra titani, il ruolo di un
pesce piccolo come l’ENI è difficile ma non senza speranza. Come si dice a volte:
nella lotta vince il più forte, nella corsa il più veloce. Se l’ENI si muove
rapidamente e evita di farsi schiacciare dai competitori più potenti, potrebbe
riuscire a fare da ago della bilancia, avere un ruolo importante nella vicenda
e prosperare. D’altra parte, tutte queste situazioni sono estremamente delicate
e, come insegna l’esperienza irachena, gli oleodotti sono estremamente vulnerabili
ai sabotaggi. Se la situazione dovesse degenerare politicamente e militarmente,
potrebbe diventare impossibile esportare il petrolio del Caucaso.
Dall’epoca in cui
Kipling scriveva il suo romanzo “Kim”, il “grande gioco” dell’Asia centrale si
è evoluto e differenziato. Oggi, la dipendenza delle economie industriali dal
petrolio fa si che essere sconfitti in un gioco del genere potrebbe voler dire
la rovina economica di un paese. In questo gioco, il giocatore visibilmente
assente è proprio quello che potrebbe essere danneggiato di più da una
sconfitta: l’Unione Europea. Con il declino dei pozzi del Mare del Nord,
follemente sfruttati fino all’ultima goccia invece che tenuti come riserva
strategica, l’Europa occidentale si trova oggi a dipendere quasi completamente
dal petrolio e gas importato. La sorgente di importazione più ovvia e più
consistente è, appunto, l’Asia continentale e in particolare la regione del Caucaso.
Le riserve della zona sono state enormemente esagerate negli ultimi anni, ma
sono comunque interessanti e, probabilmente, indispensabili per l’Europa nel
futuro. Il ruolo dell’ENI in questa situazione potrebbe essere importante e,
forse, essenziale.
[i]
(Strobe Talbott, "A Farewell to Flashman: American Policy in the Caucasus
and Central Asia," transcribed remarks, Central Asia Institute, Johns
Hopkins School of Advanced International Studies, July 21, 1997)
[ii]
http://www.hubbertpeak.com/reynolds/SovietDecline.htm
[iii]
The Caspian Oil Myth, by Patrick Eytchison, Synthesis/Regeneration 32 (Fall 2003)
[iv]
http://www.treemedia.com/cfrlibrary/library/geopolitics/ruseckas.html
[v]
Robin Knight, “Is The Caspian An Oil
[vi] A GREAT GAME NO MORE: OIL, GAS AND STABILITY IN THE
Published
in 1999 by
[vii] http://burns.senate.gov/index.cfm?FuseAction=PressReleases.Detail&PressRelease_id=834&Month=3&Year=2003
[viii]
http://burns.senate.gov/index.cfm?FuseAction=PressReleases.Detail&PressRelease_id=807&Month=2&Year=2003
[ix]
en.wikipedia.org/wiki/2001_U.S._Attack_on_Afghanistan
[x]
Science, Vol 304, Issue 5674, 1114-1115 ,
[xi] Deutsche bank report,
[xii]
D.B. reynolds, “Scarcity and Growth Considering Oil and Energy, Ewin