Di
Ugo Bardi. Febbraio 2004
L’Italia ha una produzione petrolifera, come pure di gas naturale, che la
mettono al quarto posto fra i paesi produttori Europei. Tuttavia, è spesso
difficile per il pubblico capire esattamente quanto sia importante questo
fattore per la nostra economia e quali siano i termini e le prospettive della
nostra industria del petrolio. Queste note esaminano la storia dello sviluppo
del petrolio italiano partendo dalle origini geologiche dello “stivale” per
arrivare a estrapolare quella che potrebbe essere la futura produzione. I dati
indicano che la produzione italiana, pur abbastanza importante in termini
assoluti, rappresenta tuttavia soltanto una piccola frazione del consumo
petrolifero nazionale. Non sono probabili significative espansioni di questa
produzione che potrebbe, in effetti, aver raggiunto il suo massimo storico nei
primi anni del ventunesimo secolo e essere destinata a declinare nel futuro.
Possiamo vedere l’Italia come un entità storica
oppure come un “espressione geografica” (come diceva Metternich al congresso di
Vienna). Altrettanto bene, possiamo vederla come un’entità geologica con delle
specifiche caratteristiche: una penisola montagnosa caratterizzata da attività
vulcanica diffusa. L’Italia è una terra geologicamente giovane, attiva,
fumante, e persino “vibrante” nel senso che è soggetta a terremoti spesso
disastrosi per gli abitanti.
L’attuale
configurazione della penisola costituisce l’ultima fase di un lunghissimo
processo geologico che ha le sue origini almeno duecento milioni di anni fa,
quando gli attuali continenti, o più precisamente le attuali grandi placche
continentali terrestri, facevano parte di un unico “supercontinente”, la
Pangea. Questo continente si estendeva da un'estremità polare all'altra, poli
non necessariamente coincidenti geograficamente con gli attuali poli. La Pangea
era a sua volta suddivisa in un continente a nord (Laurasia) e uno a sud
(Gondwana) separati da un mare interno, o piuttosto un golfo molto grande
e profondo Questo mare interno ha una relazione abbastanza diretta con
l’esistenza dell’attuale Italia che è formata in buona parte di sedimenti che
una volta ne erano il fondo
L’esistenza
di questo mare scopmarso fu scoperta già verso la fine dell’ 800 quando i
geologi (e principalmente lo svizzero Suess) cercavano di spiegare le ragioni
della presenza dei sedimenti marini che si possono osservare sulle Alpi. A quei
tempi, si riteneva comunemente che il meccanismo di formazione delle montagne
fosse dovuto alla contrazione della terra dovuta, probabilmente, al
raffreddamento. L’interpretazione di Suess era dunque che questa contrazione
aveva causato la corrugazione della crosta terrestre e la progressiva scomparsa
del mare a cui Suess stesso aveva dato il nome di “Tetide” dal nome greco della
mitica sposa del dio del mare, “Okeanos”.
Piu’
tardi, il concetto di “deriva dei continenti” (ancora più tardi definito
“tettonica a placche”) divenne prevalente. Secondo questa visione, le placche
continentali sono leggermente meno dense della zona sottostante, detta
“mantello” e pertanto ci galleggiano sopra. Il loro movimento è dovuto alla
spinta causata dalla fuoriuscita di basalto lungo le dorsali longitudinali
delle fosse oceaniche. Questa spinta, a sua volta, è causata da moti convettivi
della roccia fusa all’interno del mantello. Lungo tempi di centinaia di milioni
di anni, le placche si muovono, si spezzano e si riuniscono di nuovo. La Pangea
è solo l’ultimo di una serie di supercontinenti che si sono formati e scissi
durante i miliardi di anni in cui questa danza delle placche si è svolta sul
nostro pianeta.
Circa
200 milioni di anni fa, nell’era mesozoica, all’inizio del periodo che
chiamiamo Giurassico (195-135 milioni di anni prima della nostra era), ebbe
inizio un ciclo importante di movimenti tettonici. Forse a causa dell’ “effetto
coperta” della Pangea che causava un certo riscaldamento del mantello
sottostante, nuovi movimenti convettivi dettero origine a nuove dorsali e la
Pangea iniziò a frammentarsi. Le due Americhe si staccarono dall’Africa e
dall’Europa allontanandosi e creando nel mezzo quello che è oggi l’Oceano
Atlantico. La frattura fra le Americhe e l’Europa/Africa e rimasta visibile
nella forma delle coste, a tutt’oggi quasi perfettamente sovrapponibili. Fu
questa sovrapponibilità a dare ad Alfred Wegener nei primi anni del ventesimo
secolo l’idea per lo sviluppo della teoria della “deriva dei continenti”.
In
un periodo successivo, le spinte delle masse continentali portavano l’Africa a
collidere con l’Europa schiacciando progressivamente la Tetide, il mare interno
che si trovava in mezzo alle placche in movimento. Questa collisione è durata
più di cento milioni di anni ma ha avuto come risultato la frammentazione e la parziale
sparizione della Tetide che, ai suoi tempi, era un oceano di dimensioni
rispettabili. Il Mediterraneo, il Mar Nero e il mar Caspio sono ciò che rimane
oggi della Tetide, anche se l’attuale fondo di questi mari non è il residuo del
fondo di quell’antico mare che si è invece in gran parte incuneato sotto il
continente eurasiatico.
Quando
due placce si scontrano e si schiacciano l’una contro l’altra il risultato è
una corrugazione, più o meno come quando si spinge un tappeto invece che
tirarlo. Il primo risultato della collisione fra Africa e Europa sono state le
Alpi, che hanno cominciato a formarsi qualche tempo dopo la frattura della
Pangea, ovvero nel periodo Cretaceo a partire da circa 140 milioni di anni fa.
Fu il geologo svizzero Emile Argand (1879-1940) il primo ad accorgersi di
questo fatto e ha il merito di essere stato il primo a capire di come l’Italia
sia uscita dal fondo del mare – un po’ come nel mito di Venere – come risultato
di questa immane collisione
I
sedimenti compressi della Tedide, spinti verso l’alto hanno dato origine a
quella che è oggi la catena di montagne più alta d’Europa, appunto, le Alpi.
Piu’ tardi, ulteriori corrugazioni e spinte hanno dato origine agli Appennini.
E’ interessante notare che la maggior parte della terra emersa della penisola
fa parte della placca africana (con buona pace dei nostri leghisti) mentre solo
la striscia che forma la costa adriatica fa parte della placca Europea. Una
zona particolare è la parte sud del mar Tirreno, che è un’area di formazione piuttosto
recente (a partire da circa 10 milioni di anni fa). Si tratta di una placca a
se stante caratterizzata da vulcanismo molto esteso e attivo (le isole Eolie,
per esempio).
Nel
corso dellla sua formazione, la catena degli Appennini ha subito una rotazione
verso oriente dando luogo alla formazione del Mar Tirreno e del Mar Ligure;
questo è avvenuto circa 25-30 milioni di anni fa. Al contrario, la parte
dell’appennino che si trova in Sicilia ha ruotato in senso opposto, dando
origine all’attuale conformazione. Durante il periodo delle grandi glaciazioni,
circa un milione di anni fa, l’Italia era già una lunga penisola orientata più
o meno come adesso, ma più sottile. La pianura padana era occupata dal mar
Adriatico, la Puglia era un’isola, la Sicilia era divisa in due tronconi, la
Sardegna e la Corsica erano fuse in un unico stretto blocco. Soltanto in tempi
geologicamente molto brevi, la sedimentazione dei detriti alpini ha creato la
pianura padana, mentre ulteriori movimenti tettonici e variazioni nel livello
del mare hanno fuso la Puglia alla penisola, riunito la Sicilia in un unico
blocco e diviso la Sardegna dalla Corsica. Se le spinte continentali si
manterranno come sono oggi, Il Mediterraneo sembrerebbe destinato a
prosciugarsi per essere rimpiazzato da catene di montagne, ma per questo
occorreranno tempi di parecchi milioni di anni.
Tutti
questi movimenti tettonici sono quelli che, in fin dei conti, hanno dato
origine ai giacimenti petroliferi sparsi per tutto il mondo che oggi ci sono
tanto utili ma che ci fanno anche tanto tribolare. Sappiamo che il petrolio si
trova sempre in rocce sedimentarie molto antiche. La teoria che spiega questo
fatto presuppone che il petrolio sia il risultato della sedimentazione di
materia organica sul fondo dei mari. Questa materia viene progressivamente
ricoperta da sedimenti sabbiosi. Col passare del tempo, i movimenti tettonici
possono portare queste antiche sabbie a grandi profondità, dove sono compattate
dalle alte pressioni e temperature. Se non c’è materia organica nella sabbia,
il risultato sono le comuni roccie sedimentarie (arenarie, calcari, eccetera).
Se c’è una certa quantità di materiale organico, tuttavia, la pressione e la
temperatura possono trasformare la materia organica in petrolio e gas naturale.
La
creazione del petrolio è stata una cosa molto complessa e non si possono fare
generalizzazioni. Comunque, è noto che la maggior parte del petrolio che
estraiamo oggi si è formato in svariati e distinti periodi di ”anossia” ovvero
di riscaldamento planetario dovuto a un’aumentata concentrazione del biossido
di carbonio nell’atmosfere. I due principali periodi si sono verificati,
rispettivamente, verso la fine del Giurassico (circa 150 milioni di anni fa –
25% delle riserve di petrolio attuali) e nel Cretaceo (circa 90 milioni di anni
fa – 28% delle riserve attuali). L’evento del Cretaceo ha dato origine a quasi
tutto il petrolio delle due Americhe, quello del Giurassico al petrolio del
Mare del Nord e a molto del petrolio del Medio Oriente, e della Russia. Un
altra fase che ha generato molto petrolio e avvenuta più tardi,
approssimativamente 20 milioni di anni fa, al confine fra i periodo che
chiamiamo Oligocene e Miocene (circa il 12% delle riserve).
E’
noto anche che occorrono condizioni particolari per stabilizzare il
petrolio in una determinata zona (un “giacimento”). Il petrolio si trova
normalmente ingabbiato in rocce porose, ma la pressione all’interno della
crosta terrestre tende a farlo emergere in superficie dove viene distrutto da
vari processi biologici. Il petrolio si conserva soltanto se la roccia porosa è
sovrasta da uno strato di rocce impermeabili.
Può
darsi che gli antichi sedimenti di epoca Giurassica e Cretacica di quella parte
della Tetide che ha formato l’Italia moderna abbiano contenuto grandi quantità
di Petrolio. Tuttavia, i sommovimenti tettonici hanno distrutto la maggior
parte delle accumulazioni petrolifere di quell’epoca in Italia, mentre, invece,
sono rimasti nelle zone geologicamente piu’ tranquille di, per esempio, il nord
America e il Medio Oriente. Come ci possiamo aspettare, dunque, il petrolio
Italiano è frammentato in piccoli pozzi di origine molto varia. In pratica,
proviene in gran parte dal periodo Mesozoico (che comprende sia il Giurassico
che il Cretaceo, di cui abbiamo parlato, ma anche il periodo precedente, il
Triassico). Una buona parte del petrolio Italiano deriva anche da rocce del
periodo posteriore, Oligocene-Miocene, ma in questo caso si verifica spesso
che molto del petrolio che si trova oggi in questi sedimenti recenti vi
sia migrato da sedimenti molto più antichi. Il gas naturale è spesso di origine
più recente e risale a volte al quaternario, ovvero “soltanto” a 1-2 milioni di
anni fa.
Data
la varietà della situazione, ci possiamo limitare a dire che la maggior parte
dei giacimenti italiani si trovano a Est degli appennini, a sud degli stessi se
consideriamo la Sicilia. Si tratta di una striscia di pozzi, in gran parte
contenenti soltanto gas naturale, ma in alcuni casi anche petrolio in discrete
quantità. La formazione triassica di Taormina è la principale roccia sorgente,
con i carbonati Giurassici sovrastanti che forniscono giacimenti di varia
qualità. Un altro bacino e quello degli Appennini stessi, dove sono stati
trovati alcuni giacimenti profondi e piccoli bacini di gas.
L’altra
zona di alta presenza di idrocarburi fossili è il bacino del Po, la valle
Padana, che contiene forse il maggior numero di giacimenti di di gas. Questi
giacimenti sono di origine Pliocenica (ovvero del quaternario) e sono in
comunicazione con rocce sorgenti a bassa profondità che continuano a
rifornirli.
Lo
sfruttamento del petrolio italiano è cosa piuttosto recente, anche se
l’esistenza del petrolio in Italia era nota già al tempo degli Etruschi. Pare
che piccole quantità di petrolio e di bitumi fossero già utilizzate in tempi
remoti come medicinali, oli da lampada e, al tempo dei bizantini, come arma. Il
famoso “fuoco greco” era l’antenato della moderna bottiglia molotov, un
recipiente di ceramica che conteneva un liquido infiammabile e che veniva
scagliato contro il nemico per mezzo di un sifone.
Nella
pratica, come abbiamo detto, i pozzi di petrolio e di gas in Italia sono
piccoli, molto frammentati e spesso anche localizzati a grande profondità
oppure “offshore.” Questo ha reso difficile sia la loro identificazione come il
loro sfruttamento. A livello mondiale i primi pozzi di petrolio commerciali
furono sfruttati verso la metà dell’800 in Pennsylvania e nella zona del Mar
Caspio dove la geologia assai più tranquilla rendeva abbastanza facile
identificare sfruttare le risorse. Per l’Italia è stato necessario aspettare il
1944 per la prima scoperta commerciale di gas, a Caviaga, in Lombardia. Nel
1953, il primo pozzo commerciale di petrolio italiano fu scoperto a Ragusa, in
Sicilia, con petrolio contenuto in tridimiti del tardo Giurassico (circa un
milione di barili). A partire dagli anni ’70, si sono scoperti altri giacimenti
petroliferi Mesozoici in varie regioni: nelle alpi del sud-ovest,
nell’appennino del Sud e in altre regioni adiacenti. Altre regioni, le Alpi
orientali, la Toscana e la Sicilia occidentale hanno dato origine a scoperte di
modesta importanza.
A
livello mondiale, il numero e l’entità delle scoperte petrolifere è passato per
un massimo verso la fine degli anni 60, dopo di che ha cominciato a declinare
in modo apparentemente irreversibile. Per l’Italia si è vista la stessa
tendenza, ma spostata molto in avanti nel tempo. Il massimo delle scoperte di
petrolio si è avuto verso l’inizio degli anni ’80, mentre la produzione sembra
aver raggiunto il suo massimo verso l’inizio del ventunesimo secolo. Data la
frammentazione dei pozzi, non sono da escludersi ulteriori scoperte, ma sembra
più probabile che il ciclo del petrolio Italiano si sia ormai sostanzialmente
concluso e che la produzione sia destinata a declinare nel futuro.
Il
totale delle disponibiltà Petrolifere italiane è riassunto in questa tabella
(per gentile concessione di Colin Campbell, ASPO)
ITALIA |
Petrolio Convenzionale (Miliardi di barili) |
|
|
Produzione fino ad oggi |
0.91 |
Riserve provate* |
0.62 |
Production futura, - totale |
1.1 |
Da giacimenti noti |
0.69 |
Da nuovi giacimenti |
0.4 |
Produzione totale |
2.0 |
Velocitàdi esaurimento corrente |
3.1% |
Mediana della curva d produzione |
2005 |
Picco di scoperta |
1981 |
Picco della produzione |
1997 |
Questi
dati sono illustrati graficamente come segue
Possiamo
comparare i dati di Campbell con quelli forniti dalla BP (www.bp.com). Questi dati hanno origine in un
database che non èlo stesso usato da Campbell e sono pertanto leggermente
diversi. Comunque la struttura a “tre picchi” è evidente anche in questo caso.
Un altro modo di guardare gli stessi dati consiste nel considerare non la produzione annuale, ma la produzione cumulativa, ovvero per ogni anno la somma di tutto il petrolio prodotto fino a quell’anno. Anche questa figura è dovuta a Colin Campbell.
I dati
cumulativi danno un idea più evidente della saturazione sia della produzione
come delle scoperte. La produzione dovrebbe saturare (ovvero ridursi a valori
trascurabili) verso il 2050
Vediamo
ora dei dettagli sulla produzione (sempre gentilmente forniti da Colin
Campbell) abbiamo:
barili all’anno per persona |
|
Consumo |
12.2 |
Produzione 2003 |
0.9 |
Prevista 2010 |
0.8 |
Prevista 2020 |
0.6 |
Come
vediamo, la produzione nazionale rappresenta circa il 7% del nostro consumo
totale di petrolio, il rimanente 93% è importato dall’estero. Se dovessimo
basarci soltanto sulle risorse nazionali per mandare avanti l’economia e il
sistema dei trasporti, è evidente che non andremmo molto lontano. Un altro modo
di vedere le cose in prospettiva è che la produzione Italiana è circa l’1%
dellla produzione mondiale (leggermente maggiore di 80 milioni di barili al
giorno). Per finire con la prospettiva, notiamo anche che le riserve Italiane
rimanenti, circa 1 miliardo di barili, rappresentano circa lo 0.1% (uno per
mille) delle riserve mondiali e che basterebbero
soltanto per garantire soltanto 15 giorni di consumo mondiale all’attuale
livello (25 miliardi di barili all’anno).
Quindi, non dobbiamo farci troppe illusioni sulla possibilità per la
produzione di petrolio (e di gas) nazionale di soddisfare le esigenze
energetiche italiane. Tuttavia, questa produzione rappresenta pur sempre un
elemento di benefico sulla nostra bilancia dei pagamenti. Con gli aumenti di prezzi del greggio riscontrati nel 2004
(circa 40 dollari al barile), una produzione intorno agli 80.000 barili al
giorno rappresenta un introito di circa un miliardo di dollari (800 milioni di
Euro) all’anno. Questo valore è meno dello 0.1% del PIL nazionale (circa 1000
miliardi di euro/anno), ma purtuttavia non è trascurabile se comparato – per
esempio – al valore della “fattura petrolifera” nazionale che si è previsto per
circa 16 miliardi di Euro per il 2004 oppure con la totale spesa energetica
nazionale, intorno ai 27 miliardi di Euro all’anno.
Quindi, la produzione di petrolio italiana è un fattore di stabilità
che fornisce un modesto ma non trascurabile scudo contro le folli variazioni dei prezzi internazionali e,
non ultima cosa, un elemento di “sicurezza energetica” che potrebbe garantirci
almeno un minimo di scorte in caso di una crisi internazionale grave.
In
quest’ultima ottica, non sarebbe una cattiva idea considerare la possibilità di
non sfruttare subito i pozzi italiani, ma di lasciarli per sicurezza,
una specie di “salvadanaio energetico” che ci potrebbe tornare utile se nel
futuro l’esaurimento delle riserve mondiali portasse a degli aumenti di prezzi
del petrolio veramente fuori del ragionevole. Questa idea, tuttavia, cozza
contro le opinioni economiche prevalenti che lasciano l’estrazione totalmente
nelle mani del libero mercato. Questo porta, ovviamente, a cercare di
massimizzare i profitti nel breve termine e pertanto a estrarre le risorse alla
massima velocità possibile. Questa potrebbe non essere la strategia migliore,
ma al momento sembra inevitabile. Dove poi finirà per portarci, soltanto il
futuro ce lo potrà dire.