Petrolio: per quanto tempo ancora?

Davide Scrocca
Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria (IGAG –CNR)

Pubblicato sulla rivista della Federazione Italiana di Scienze della Terra
(Geoitalia, n.15, pp. 25-31, luglio 2005)

pubblicato su www.aspoitalia.net


Il prodigioso sviluppo tecnologico ed economico che ha caratterizzato il secolo passato è stato sostenuto da crescenti consumi di energia e, in particolare, è stato alimentato in modo significativo dall’abbondante disponibilità di una fonte energetica versatile e pregiata: il petrolio. I recenti notevoli aumenti del prezzo di tale risorsa hanno generato un diffuso allarme nella pubblica opinione che per noi geologi si traduce nella fatidica domanda che ci viene rivolta riguardo alla reale disponibilità di questa fonte energetica non-rinnovabile e, parallelamente, al rischio che tali tensioni sui prezzi possano essere interpretate come segnali di una sua possibile imminente scarsità.

In questa breve nota sono presentati e discussi alcuni dei dati più rilevanti su tale tematica, reperibili presso i principali enti e organismi internazionali che divulgano informazioni su temi energetici e, in particolare, sul petrolio. La rielaborazione di queste informazioni evidenzia non solo l’oggettiva complessità delle analisi richieste per formulare una risposta significativa alle domande che ci vengono poste ma, soprattutto, apre inevitabilmente la via ad alcune riflessioni sul futuro energetico della nostra società e sulle profonde implicazioni degli attuali modelli di sviluppo

I dati disponibili

Può essere opportuno iniziare questa analisi riportando alcuni dati sui consumi energetici attuali e sulle previsioni disponibili per i possibili consumi futuri.

I consumi di petrolio sono costantemente aumentanti negli ultimi decenni con un tasso medio annuo di circa il 2%. Nel 2003, stando ai dati diffusi dall’International Energy Agency (2004), per soddisfare il fabbisogno energetico mondiale sono stati consumati oltre 10 miliardi di tonnellate di petrolio equivalenti, forniti da combustibili fossili, energia nucleare, idroelettrica e da altre fonti; di questi consumi, circa il 35% è rappresentato da petrolio vero e proprio (Fig. 1).



Figura 1 – Consumi mondiali di energia distinti per fonte (dati ripresi da IEA, 2004).Secondo la stessa fonte, il consumo medio di petrolio nel corso del 2004 è stato di 82.5 milioni di barili al giorno, corrispondenti a un totale su base annuale di oltre 30 miliardi di barili (unità di misura abbreviata nel seguito in Gb).

L’International Energy Agency (2004) prevede un aumento dei consumi di energia del 50% anche nei prossimi 20 anni (sempre con un tasso medio annuo del 2%). Generalmente si pensa che una parte importante di tali previsti consumi energetici sarà coperta da incrementi nella produzione di petrolio. Ad esempio, l’Energy Information Administration (2003), un ente governativo USA, prevede che i consumi annuali di petrolio potrebbero aumentare dagli attuali 30 Gb a oltre 43.5 Gb nel 2025, con un tasso di incremento medio annuo del 1.8%.

Se questo è lo scenario di riferimento in merito ai consumi attuali e previsti, è opportuno analizzare i dati sulla consistenza delle riserve di questa fonte di energia su tutto il nostro pianeta. Esistono ovviamente diverse organizzazioni che diffondono informazioni sull’entità di tali riserve; alcune stime recenti le valutano con valori compresi tra circa 1100 Gb (ENI, 2004) e circa 1148 Gb (BP, 2004; Fig. 2).




Figura 2 – Distribuzione geografica (in percentuale) delle riserve mondiali di petrolio (modificata da BP, 2004).


Purtroppo, però, i dati “ufficiali” disponibili sono scarsamente affidabili per diversi ordini di motivi. Una prima causa di incertezza è dovuta all’oggettiva difficoltà tecnica nel valutare precisamente i quantitativi di petrolio ancora contenuti nei giacimenti presenti nel sottosuolo. A titolo di esempio, le compagnie petrolifere non esprimono le riserve presenti in un dato giacimento con una cifra determinata, ma piuttosto con percentuali di probabilità (per uno stesso giacimento si può dire che esiste una probabilità maggiore del 50% di avere più di 1 Gb e solo del 10% di avere più di 2 Gb).

Inoltre, diversi fattori politico-economici influenzano l’elaborazione e la diffusione di informazioni sensibili relative alle stime delle riserve sia per quanto riguarda le singole compagnie che i paesi produttori. Nel primo caso, le compagnie petrolifere, per mantenere alte le quotazioni delle proprie azioni, soprattutto in periodi caratterizzati da scarsi ritrovamenti di nuovi giacimenti, hanno la tendenza a rivalutare artificiosamente al rialzo le stime delle riserve contenute nei loro giacimenti. Tale fenomeno finisce purtroppo per essere confusa con la pur dimostrata possibilità di migliorare i fattori di recupero dovuta all’impiego di tecnologie più efficaci e a una migliore conoscenza delle caratteristiche geologiche del giacimento (il tasso di recupero è passato, su media mondiale, da poco più del 20% degli anni ‘70 al circa 35% attuale).

Nel secondo caso, può essere considerato emblematico il significativo incremento nella seconda metà degli anni ’80 delle riserve dei paesi OPEC. Infatti, nel periodo 1985-1990 i produttori OPEC dichiararono un aumento delle proprie riserve di oltre 280 Gb, dato che contrastava in modo stridente con i quantitativi di petrolio rinvenuti in giacimenti di nuova scoperta (dell’ordine di decine di Gb). La chiave per spiegare questo fenomeno, altrimenti incomprensibile, risiede nelle nuove regole che gli stessi paesi OPEC avevano fissato in quegli anni per ridistribuire al loro interno le quote di produzione. Tali regole prevedevano che le quote di produzione venissero assegnate sulla base delle riserve dichiarate da ogni singolo paese (in sostanza, tanto maggiori erano le riserve dichiarate, tanto maggiore era la quota di produzione assegnata). Di conseguenza, per aumentare le proprie entrate legate all’esportazione di petrolio, ogni paese aveva tutto l’interesse a passare da una valutazione conservativa delle proprie riserve a una più ottimistica. Per avere un’idea dell’affidabilità delle riserve dichiarate ufficialmente dei paesi OPEC, vale la pena di notare (Fig. 3) che dopo l’aumento degli anni 1985-90 la maggior parte di questi paesi ha continuato a dichiarare anno dopo anno praticamente le stesse riserve sottintendendo, paradossalmente, che i notevoli volumi prodotti siano stati precisamente rimpiazzati da nuove scoperte o da revisioni delle riserve già note.



Figura 3 – Nella tabella sono mostrati gli anomali incrementi delle riserve dichiarate dai principali paesi produttori dell’OPEC nel periodo 1985-1990.

Una re-interpretazione critica dei dati disponibili, sviluppata dall’Association for the Study of Peak Oil & Gas tenendo conto dei fattori d’incertezza discussi (ASPO, 2005 e materiale disponibile presso il sito web http://www.peakoil.net), stima l’entità delle riserve di petrolio convenzionale in meno di 800 Gb. A questo punto diviene necessario specificare che la terminologia tecnica richiede una distinzione tra:

* il “petrolio convenzionale”, producibile a basso costo e che rappresenta circa il 95% di tutto il petrolio prodotto sino a oggi);

* i cosiddetti Natural Gas Liquids (NGL), ossia idrocarburi allo stato gassoso nelle condizioni di giacimento caratterizzate da pressioni e temperatura elevate, ove sono miscelati con gas, ma che sono recuperati come idrocarburi liquidi nel passaggio dei fluidi gassosi dal giacimento alla superficie e quindi nelle tubazioni e negli impianti di trattamento;

* il “petrolio non-convenzionale”, di cui si ritiene esistano vaste riserve, rappresentato principalmente da:

  • petrolio recuperato da giacimenti in aree polari e in acque profonde;
  • petrolio “pesante” caratterizzato da elevata viscosità;
  • petrolio estratto da sabbie o da scisti bituminosi.
Purtroppo, anche prescindendo dai pur preoccupanti problemi ambientali che lo sfruttamento delle riserve di petrolio non-convenzionale necessariamente comporta (e.g., Youngquist, 1997), diversi studi hanno chiaramente documentato che nel determinare la validità e l’economicità dello sfruttamento di una fonte energetica è necessario considerare il rapporto tra l’energia che è possibile ottenere da una data fonte e l’energia che è necessario spendere per produrla (EROEI, dall’inglese Energy return on energy investement). Ad esempio, dal punto di vista della resa energetica, è molto più conveniente produrre petrolio da giacimenti posti a poche centinaia di metri che da giacimenti localizzati a migliaia di metri di profondità.

I dati disponibili testimoniano non solo l’inesorabile declino medio dell’EROEI dei giacimenti di nuova scoperta (con un valore attuale compreso tra 8 e 10, mentre era in media superiore a 40 nel periodo 1950-1970; Odum, 1996), ma soprattutto i bassissimi EROEI che caratterizzano le più abbondanti fonti di petrolio non convenzionale (ad esempio, per le sabbie bituminose è stato stimato un EROEI di circa 1.5; Youngquist, 1997). È del tutto evidente che se sostituiamo una fonte energetica che ha un EROEI pari a 8 con una che ha un valore uguale a 2, sarà necessario produrre un quantitativo di energia lorda quattro volte maggiore per avere la stessa quantità di energia netta.

In ogni caso, per quanto riguarda il petrolio convenzionale, vale la pena di notare che (Fig. 4):

  • le scoperte di petrolio hanno avuto un picco nei primi anni ’60;
  • l’80% del petrolio che si consuma è stato scoperto prima del 1973;
  • negli ultimi anni, in media, è stato trovato 1 barile ogni 4 consumati;
  • circa il 65% delle riserve rimanenti è concentrato nei paesi medio-orientali (i soli che possono ancora incrementare la loro quota di produzione, mentre la gran parte dei restanti produttori sembra aver già passato il picco di produzione);
Tornando alle domande poste in apertura, per stimare la disponibilità futura di petrolio si potrebbe pensare di utilizzare il rapporto riserve/produzione. Accettando in prima istanza una delle stime ottimistiche sulla consistenza delle riserve alla fine del 2003, ad esempio quella di circa 1148 Gb diffusa dalla BP (2004), e dividendo tali riserve per la produzione annuale di circa 30 Gb (dato 2004), otterremmo il “rassicurante” valore di 38 anni.

In realtà, il rapporto riserve/produzione, anche prescindendo dall’affidabilità della stima sulle riserve, pur fornendo un’idea della disponibilità di una data risorsa, non è significativo per definire l’orizzonte temporale in cui avremo l’effettiva certezza di approvvigionamenti adeguati. Infatti, non solo nella valutazione del rapporto riserve/produzione si assumono implicitamente consumi di petrolio costanti in contrasto con le previsioni delle principali organizzazioni internazionali ma soprattutto non viene considerata la fisica dei giacimenti di petrolio che rende l’estrazione di petrolio progressivamente più difficoltosa (e costosa) via via che si estraggono porzioni crescenti della riserva recuperabile.



Figura 4 – Quantitativi di petrolio convenzionale prodotti e scoperti dal 1930 in poi e previsione delle possibili scoperte future (da ASPO, 2004). A partire dagli anni ’80 si può notare il crescente squilibrio tra consumi (crescenti) e scoperte (decrescenti).

Inoltre, come è noto, il petrolio rappresenta una risorsa finita non rinnovabile che si è generata in ben precisi periodi geologici a seguito della trasformazione termica della materia organica contenuta nelle rocce e che, in condizioni favorevoli, ha dato luogo ad accumuli sfruttabili economicamente. È ormai assodato che il ciclo di produzione di una risorsa finita in una data regione (Hubbert, 1980), in assenza di vincoli politici o economici, parte da zero, cresce sino a un massimo e poi, quando circa la metà della risorsa è stata estratta, declina gradualmente sino a zero (Fig. 5).


Figura 5 – Sommando la produzione derivante dai singoli giacimenti presenti in una data regione si ottiene una curva che ha, approssimativamente, la forma di una campana. Da questo diagramma si evince che il flusso di petrolio da una data regione inizia a declinare quando circa la metà delle riserve disponibili è stata estratta.

Analizzando la curva che descrive l’andamento delle scoperte di nuovi giacimenti e conoscendo il ritardo tra scoperte e inizio della produzione, è teoricamente possibile stimare il picco di produzione. Applicando questo approccio, il geologo M.K. Hubbert fu in grado di prevedere nel 1956 che la produzione di petrolio negli USA (Alaska esclusa) avrebbe raggiunto il picco intorno al 1969.

D’altra parte, alle riserve già scoperte bisogna sommare una stima dei quantitativi di petrolio che ancora devono essere scoperti. Tale valutazione, che è stata oggetto di studi specifici realizzati sia da vari enti che da singoli specialisti, è probabilmente una delle analisi/previsioni più complesse da sviluppare e lascia inevitabilmente ampi margini d’incertezza. Una delle stime più positive in assoluto è stata sviluppata dal United States Geological Survey (USGS, 2000), che quantifica in media in oltre 700 Gb le riserve ancora da scoprire a cui dovrebbero essere sommati oltre 600 Gb dovuti alla crescita delle riserve dei giacimenti esistenti a seguito di migliorate tecniche di recupero. Tra le valutazioni più conservative vale la pena di citare quella proposta dai tecnici dell’ASPO (Aleklett, 2005) che stima in poco più di 130 Gb il totale del petrolio contenuto in giacimenti ancora non individuati.

Se si somma il petrolio prodotto complessivamente nel periodo compreso tra l’inizio dell’attività estrattiva (seconda metà dell’800) e la fine del 2004, valutabile in circa 1040 Gb (ASPO, 2005), le riserve note discusse in precedenza e una stima dei volumi che si ritiene di poter ancora scoprire, si ottiene una valutazione delle riserve totali originariamente disponibili sull’intero pianeta (abbreviato in URR, dall’inglese Ultimately Recoverable Resource). Le principali stime dell’URR (Andrews & Udall, 2003) sono rappresentate in figura 6. La grande variabilità delle stime pubblicate è dovuta, oltre che ai diversi quantitivi di petrolio che i vari autori ritengono possano essere ancora trovati, anche al fatto che alcune stime considerano solo il petrolio convenzionale mentre altre includono anche i NGL e proporzioni variabili di petrolio non convenzionale. In ogni caso, premesso che come opportunamente ricordato da Colin Campbell “All figures are wrong”, dall’analisi dei dati raffigurati è possibile trarre alcune conclusioni generali:

  • stime ripetute effettuate dallo stesso autore o gruppi di autori in tempi successivi presentano generalmente un trend crescente;
  • trascurando le stime più antiche, a partire dagli anni ’70 si osserva una relativa stabilizzazione dell’intervallo di distribuzione degli URR proposti;
  • le valutazioni più recenti tendono a distribuirsi in un intervallo compreso tra i 2000 e i 3000 Gb.


Figura 6 – Principali stime delle riserve totali originariamente disponibili sull’intero pianeta (URR dall’inglese Ultimately Recoverable Resource). I dati sono ripresi da Andrews & Udall (2003).

La grande variabilità di queste stime è dovuta, oltre che ai diversi quantitivi di petrolio che i vari autori ritengono possano essere ancora trovati, anche al fatto che in alcuni casi viene preso in considerazione solo il petrolio convenzionale mentre in altri sono inclusi anche i Natural Gas Liquids e proporzioni variabili di petrolio non convenzionale.

Dovrebbe quindi essere ormai evidente che il vero problema non è cercare di prevedere quando sarà estratta l’ultima goccia di petrolio, quanto piuttosto tentare di definire il periodo in cui la curva di produzione raggiungerà il suo massimo per poi iniziare il suo lento e inevitabile declino. Come correttamente rilevato da diversi analisti (e.g., Hirsch, 2005), il futuro andamento della produzione dipende dalla complessa interazione di vari parametri tra cui la reale consistenza delle riserve, l’evoluzione della domanda, l’effettiva entità delle nuove scoperte, il livello degli investimenti finanziari, eventuali nuove progressi tecnologici, eventi imprevedibili etc.
Le forti incertezze che interessano le stime di questi parametri hanno alimentato negli ultimi anni un acceso dibattito sul possibile andamento della produzione nei prossimi decenni tra chi ha una visione più conservativa e chi, invece, ha un approccio più ottimistico.

Il primo gruppo è formato prevalentemente da tecnici dell’industria petrolifera (e.g. Ivanhoe, 1996; Campbell & Laherrère, 1998, Deffeyes, 2001) che, rifacendosi alla metodologia applicata da Hubbert (Fig. 5), paventano il rischio che il cosiddetto picco della produzione possa essere raggiunto già nei prossimi anni o, al più tardi, all’inizio del prossimo decennio. In particolare, in figura 7 è riportato lo scenario elaborato dall’Association for the Study of Peak Oil & Gas (ASPO, 2005) fondata da alcuni dei suddetti autori.

Il secondo gruppo è composto principalmente da economisti (e.g., Lomborg, 2001; Lynch, 2003) che elaborano le proprie analisi in base a stime molto ottimistiche dei quantitativi di petrolio che potrebbero essere ancora recuperati (sostanzialmente derivati dal rapporto pubblicato dall’USGS, 2000) grazie all’effetto combinato di sviluppi tecnologici e delle leggi di mercato. In questo caso, il possibile picco nella produzione viene spostato molto più avanti, tra non meno di 20-30 anni (e.g., EIA, 2004).
In ultima analisi, se è vero che le stime più negative non tengono probabilmente nel dovuto conto gli effetti dei possibili progressi tecnologici, è opportuno sottolineare che le valutazioni più ottimistiche sono basate su stime della possibilità di scoprire nuovi giacimenti che sono state già smentite dai risultati conseguiti negli ultimi anni (una efficace comparazione critica delle due tesi contrapposte è sviluppata da Heinberg, 2004).



Figura 7 – Andamento della produzione di petrolio dal 1930 ai nostri giorni e previsione del possibile andamento futuro (ASPO, 2004). In questo scenario, il picco nella produzione dovrebbe essere raggiunto nei prossimi anni e sarà seguito da un progressivo declino nei volumi prodotti. Nella legenda, i termini Heavy, Deepwater, Polar e NGL corrispondono a tipologie di petrolio non-convenzionale descritte nel testo.

Alcune considerazioni

In definitiva, l’analisi critica dei dati disponibili delinea un possibile scenario energetico per i prossimi anni caratterizzato da una domanda crescente di petrolio che, da un certo momento in poi, non sarà possibile soddisfare a causa della natura finita di questa risorsa. Di conseguenza, tale periodo sarà inevitabilmente caratterizzato da un permanente squilibrio tra domanda e offerta che potrà avere enormi effetti sulla dinamica dei prezzi e sullo stesso sviluppo delle nostre economie, ancora così fortemente dipendenti dal petrolio. In sostanza, si prevede che l’aumento della domanda di petrolio, legato a fasi di espansione economica, si traduca in significativi incrementi del prezzo del barile. Tale aumento, insieme ai relativi effetti inflattivi, è in condizione di frenare la fase di espansione economica sino a innescare una fase di recessione a scala globale, che sarebbe a sua volta seguita da un allentamento delle tensioni sui prezzi del petrolio per la diminuita domanda (Hirsch et al., 2005). Simili processi, secondo diversi analisti, sono già in atto e potrebbe ripetersi più volte nei prossimi anni, prevenendo l’instaurarsi di fasi di rilevante e persistente espansione economica.

In questo senso, l’andamento futuro della curva di produzione di petrolio potrebbe essere caratterizzato da un unico picco o, in alternativa, da due o più picchi (o magari da un periodo di diversi anni con produzione circa costante); in ogni caso, in un prossimo futuro la produzione di petrolio convenzionale è destinata inevitabilmente a diminuire. Il petrolio non-convenzionale potrà solo ritardare il picco di produzione mondiale di petrolio di alcuni anni e rendere più sopportabile il declino successivo (Fig. 7).

Per soddisfare la domanda di energia nei prossimi anni si farà certamente ricorso, in modo crescente, ad altri combustibili fossili (ad esempio gas e carbone, di cui esistono ancora scorte rilevanti), a fonti rinnovabili e, probabilmente, si tenterà anche un rilancio del nucleare. Una descrizione dettagliata delle implicazioni di queste possibili alternative esula dai limiti di questo contributo; in ogni caso i dati e le analisi disponibili sull’EROEI di queste fonti (rinnovabili e non) sembrano convergere nel mettere in evidenza una sostanziale inadeguatezza di tali alternative (per quantità e qualità) a sostenere a medio-lungo termine i livelli di consumi energetici attuali e previsti (si veda in proposito: Gever et alii, 1991; Cleveland & Kaufman, 2001; Bardi, 2003; Heinberg, 2004).

D’altra parte, l’energia disponibile in un ecosistema rappresenta uno dei fattori più rilevanti nel determinare il carico massimo di popolazione, per ogni specie, che quel dato ambiente può sostenere su base costante (definita tecnicamente “portata”). Negli ultimi due secoli ci siamo abituati a un regime in cui ogni anno era disponibile più energia e la popolazione mondiale è aumentata rapidamente beneficiando di questa abbondanza energetica. Di conseguenza, abbiamo finito per dipendere da un sistema economico-industriale basato sul presupposto che la crescita costante sia normale e necessaria e che possa continuare per sempre. Nella rappresentazione ideale di questo processo, generalmente accreditata dai media e comunemente percepita, lo sviluppo della moderna civiltà industriale è solitamente considerato il risultato di un continuo progresso scientifico e tecnologico e della crescente capacità delle società umane di ottenere quantità di energia sempre più grandi. In una visione alternativa efficacemente illustrata da Heinberg (2004), tale processo potrebbe essere paragonato a un tipico fenomeno di fioritura osservato a seguito dell’inserimento di cellule di lievito in un tino di vino. L’iniziale abbondanza di cibo disponibile stimola gli organismi a proliferare in modo sfrenato sino a quando la sostanza nutritiva non inizia a scarseggiare e i sottoprodotti della loro stessa fermentazione non cominciano ad avvelenarli, dando luogo a un fenomeno di sfondamento della portata dell’ecosistema e alla successiva moria degli organismi. Purtroppo, diverse analisi e modellazioni numeriche dei possibili scenari futuri, sviluppati sulla base delle tendenze in atto a livello demografico e sui tassi di sfruttamento delle risorse disponibili, sembrano confermare che la moderna società industriale, a scala globale, mostra una forte tendenza verso lo sfondamento e il collasso (e.g., Meadows et alii., 1993).

Sebbene la complessità della nostra epoca renda, in una certa misura, velleitario qualsiasi tentativo di predire l’evoluzione futura, non si può non rilevare la crescente incongruenza di alcuni consolidati paradigmi economici, quale ad esempio il mito della crescita industriale illimitata basata su consumi energetici crescenti. In conclusione, è molto probabile che nei prossimi anni diverrà sempre più urgente, oltre che auspicabile, riconsiderare diversi aspetti del nostro attuale modello di sviluppo “insostenibile”.



Bibliografia

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