Quando i pozzi si stanno asciugando

Consumiamo più petrolio di quanto ne troviamo, e se i produttori stanno “aggiustando” i loro numeri allora la fine potrebbe essere prima di quanto si pensi.

Predire la fine dell’età del petrolio può rivelarsi un affare alquanto sgradevole. L’associazione per lo studio del picco del petrolio e del gas (ASPO), un’associazione di industriali, politici e accademici, ha tenuto questa settimana il suo incontro annuale al museo Gulbenkian di Lisbona.

Da un inizio tranquillo tre anni fa, ASPO non è più un qualcosa che deve essere sul punto di scoppiare per essere presa sul serio.

I delegati hanno dovuto districarsi tra non meno di 10 squadre di documentaristi, una quantità di telecamere e schiere di giornalisti per riuscire ad afferrare la loro sedia nello stipato auditorium. Piuttosto che parlare di quando il petrolio “finirà”, ASPO preferisce predire che la produzione globale può essere, o si sta avvicinando, al suo massimo.

Il mondo sta consumando più petrolio di quello che si trova, e la scoperta di giacimenti petroliferi ha raggiunto il suo massimo negli anni ’60. Nonostante il progresso tecnologico avutosi da allora, la scoperta di nuovi giacimenti è in continuo ribasso. Questo, dicono i membri di ASPO, ha condotto all’attuale mancanza di ogni possibile ammortizzazione tra offerta e domanda, con il conseguente rialzo dei prezzi. Le conseguenze per il mondo; se ASPO è nel giusto, sono catastrofiche.

Per questa organizzazione è fondamentale il lavoro di Colin Campbell, un geologo, che è stato in passato il vice presidente esecutivo di un gigante del petrolio quale TOTAL. Durante il discorso principale del convegno, Campbell ha parlato di “alba dell’età della fine del petrolio” e di “fine dell’economia”.

A sostegno di tutto il lavoro di Campbell e della ASPO è la mancanza di trasparenza sui dati delle riserve petrolifere mondiali. Campbell ha attirato l’attenzione sul come l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, i paesi dell’OPEC, abbiano rivisto le stime relative alle loro riserve negli anni ’80, e di come, incredibilmente, essi usino ancora oggi questi dati rimaneggiati. Campbell ha sottolineato l’esempio del Kuwait, che ha manipolato le sue precedenti stime nel 1985. da un momento all’altro le sue riserve sono cresciute da 64 a 92 miliardi di barili. Poiché le quote di produzione concesse ai paesi dell’OPEC sono proporzionali alle riserve dichiarate, questo ha permesso al Kuwait di estrarre più petrolio e di guadagnare più soldi nell’immediato.

Campbell ha mostrato come, due anni dopo, gli altri paesi dell’OPEC, aggirati da questa mossa improvvisa del Kuwait, hanno fatto altrettanto. Gli Emirati Arabi Uniti sono passati da 31 a 92 miliardi di barili. “poi è stata la volta dell’Iran”, ha detto Campbell. Quest’ultimo ha dichiarato che le sue riserve erano aumentate passando da 47 a 93 miliardi di barili. “E che dire dell’Iraq?” ha aggiunto Campbell. “Saddam, come tutti noi sappiamo bene, ha alcune visioni simpaticamente forti delle cose, cosicché ha deciso di arrivare a 100 miliardi tondi tondi di barili di petrolio. “ In precedenza le sue riserve stimate erano 47 miliardi di barili.

Circa 18 o 20 anni dopo, questi numeri sono rimasti inalterati. Questo nonostante gli Emirati Arabi Uniti, per esempio, estraggano milioni di barili ogni settimana dal giorno in cui hanno dichiarato queste cifre.

Campbell afferma che i membri dell’OPEC , e altri come la Russia, si stanno riferendo alla quantità totale di risorse che siano mai state scoperte e non alla quantità residua, che possiamo ancora utilizzare. Ma queste proteste non sono solo di ASPO. Quest’anno L’International Energy Agency (IEA), il Fondo Monetario Internazionale, e i membri del G7 hanno tutti fatto richiesta che l’OPEC, e gli altri paesi produttori, aprano i loro giacimenti a verifiche indipendenti. Senza sapere quanto petrolio ancora ci rimane da estrarre resta impossibile prendere delle decisioni riguardo alla transizione energetica, cioè riguardo al fatto di spostarsi da un economia prevalentemente basata sul petrolio.

L’Arabia Saudita, uno dei principali attori nella produzione mondiale di petrolio, ha anch’essa aumentato nel 1988 le sue riserve dichiarate – da 170 a 258 miliardi di barili.

Giusto qualche giorno prima della conferenza di ASPO a Lisbona, Ali al-Naimi, il ministro del petrolio saudita, ha dichiarato che il deserto del regno può arrivare a produrre da circa 9 milioni di barili al giorno fino a 12 o addirittura 15. Questo è stato ripetuto costantemente, ma fino ad oggi, la compagnia statale Saudi Aramco, non l’ha fatto. Quello che desta maggior preoccupazione è che Naimi, per la prima volta ha posto un limite a questo livello di produzione: circa 15 anni. Precedentemente, i sauditi dicevano che avrebbero potuto estrarre a questi ritmi per 50 o anche per 100 anni.

Matthew Simmons, delegato dell’ASPO, consulente di George Bush per la pianificazione energetica e investitore finanziario, è un dei maggiori esperti sulla produzione petrolifera saudita. Egli è scettico sulle stime saudite e il suo libro sull’argomento “Crepuscolo nel Deserto”, sta provocando effetti nell’industria, benché non arriverà sugli scaffali prima di quindici giorni.

“Nessuno può sapere quanto petrolio i sauditi abbiano lasciato sottoterra” dice Simmons. Una manciata di persone della Saudi Aramco credono di saperlo, ma in realtà nessuno lo sa davvero. Perché? Perché la Saudi Aramco ha una sorta di omertà, un codice di silenzio che la attraversa.

“Qualche anno fa ho incontrato un tipo, ad una conferenza dove ero il relatore principale: era un ingegnere senior che lavorava per l’Aramco, abbastanza senior per essere volato fino a Houston per sentirmi parlare. In seguito gli chiesi le dimensioni del più grande giacimento dell’Arabia Saudita: Gharwar. Non in termini di riserve, ma giusto le sue dimensioni fisiche. Era un qualcosa che avrei potuto guardare su una mappa, ma pensai che potevo giusto chiederlo a lui. Lui rispose: “ È circa lunga 130 miglia e larga 15 o 20 miglia, ma non dica a nessuno che io le ho detto queste cose, altrimenti perderei il mio lavoro.”

Questa rivelazione fece riflettere Simmons. “Come è possibile che un profilo così di alto livello sia spaventato a tal punto?” si chiese. “Dopo tutto non mi aveva detto nulla che non avrei potuto venire a sapere da solo. Mi stupì e mi fece guardare alla produzione saudita completamente sotto un’altra luce.”

Adesso Simmons crede che Ghawar, il più grande giacimento del pianeta, sia definitivamente in declino. “Deve essere così” dice. Se ha ragione non c’è molto da rimpiazzare e l’inizio della fine del petrolio può arrivare prima di quanto pensiamo.


Adam Porter
(traduzione dall’inglese a cura di Pierangela Magioncalda)

Mercoledì 25 Maggio 2005
Guardian