Democrazia e Petrolio

Le tormentate elezioni italiane dell'Aprile 2006 hanno messo in luce le difficoltà in cui il concetto stesso di "democrazia" si trova in quasi tutti i paesi dove viene praticata. In Italia, ma non solo, vediamo un elettorato frastornato dall'ossessivo bombardamento dei media; una campagna elettorale basata su insulti e bugie; una classe politica sempre più lontana dalla società reale e sulla quale pesano accuse di interessi personali e di illegalità da nascondere. In molti paesi, poi, aleggia il sospetto dei brogli elettorali, resi oggi enormemente più facili dall'introduzione dei sistemi elettronici di voto.

Siamo tutti daccordo, sembra, che la democrazia sia una cosa desiderabile, così come lo è la buona salute. Ma sembra proprio che la nostra democrazia non sia in buona salute e che non riusciamo a trovare la medicina che la guarisca. Prima avevamo il grande centro e il sistema proporzionale; da li' ci è parso necessario passare al bipolarismo e al sistema uninominale. Adesso sembra che si voglia tornare al grande centro e al sistema proporzionale. Sono medicine efficaci o è soltanto accanimento terapeutico su un paziente ormai allo stremo?

A costo di essere visto (come al solito) come "petroliocentrico," vorrei proporre un'analisi della situazione che va indietro agli effetti delle grandi crisi del petrolio degli anni '70. La crisi, archiviata da quasi tutti come un'anomalia, era invece il sintomo di una profonda difficoltà nell'approvvigionamento delle materie prime che dura tuttora e che, anzi, sta diventando sempre più grave. L'effetto della crisi sulla struttura della società potrebbe essere di aver marcato il punto d'inizio di un'evoluzione verso sempre maggiori differenze sociali, cosa che, come ben sappiamo, è sfavorevole alla democrazia.

Quando si parla di differenze sociali si entra in un argomento spinoso, dove è facile farsi dare del sovversivo pericoloso. Ma la distribuzione del reddito nella società è qualcosa che si può misurare quantitativamente, indipendentemente dalle simpatie politiche. Il metodo più comune si basa sull' "Indice di Gini" e ci fornisce un dato oggettivo, un numero che può andare da 0 a 1 (o, alle volte, viene dato in valori percentuali, dallo 0% al 100%). Un valore di zero dell'indice indica una situazione di uguaglianza assoluta, qualcosa che somiglia a quello che i marxisti chiamavano una volta il "paradiso del proletariato". Un valore di 1, invece, corrisponde alla situazione opposta; ovvero pochi nobili ricchissimi e il resto servi della gleba. Come è ovvio, nessuno di questi due estremi si trova nelle società occidentali moderne che hanno indici di Gini che vanno, più o meno, fra 0.3 e 0.5 I paesi dell'Europa del Nord sono quelli che hanno il Gini più basso, sotto 0.3 mentre negli Stati Uniti siamo su valori maggiori di 0.4. In Italia, abbiamo un valore intermedio (circa 0.35) ovvero le differenze sociali da noi sono minori che negli Stati Uniti, ma più ampie che in molti paesi europei.

Tutto sommato, queste differenze non ci sorprendono e corrispondono all'impressione che uno si può fare della situazione dei vari paesi. Quello che invece ci può apparire sorprendente, e che è anche poco noto ai non addetti ai lavori, è un altro fenomeno che l'indice di Gini ci mostra: l'aumento progressivo delle differenze sociali in tutti i paesi occidentali (vedi le figure in fondo al testo). E' da circa la metà degli anni 70 che l'indice di Gini ha cominciato ad aumentare negli Stati Uniti. I paesi Europei hanno seguito la tendenza con qualche anno di ritardo, mentre in Italia l'indice di Gini ha cominciato a salire a partire dai primi anni '90. Questo aumento della diseguaglianza sociale ha interrotto la tendenza opposta, ovvero a una sempre maggiore uguaglianza, che durava da almeno un secolo in Occidente. C'è stato un epocale cambiamento a partire dalla metà degli anni '70 con l'inizio di un fenomeno di trasferimento di ricchezza dai settori più poveri della società a quelli più ricchi. Per questo motivo, si parla della "grande inversione di marcia" ("The great U-turn") degli anni '70, un termine usato da due economisti Americani, Bennet Harrison e Barry Bluestone, che per primi hanno notato la cosa.

Il quadro di incremento della diseguaglianza sociale che ci dipinge l'indice di Gini sembra andare contro la percezione generale della situazione economica. La sensazione generale sembrerebbe essere, piuttosto, che stiamo diventando tutti sempre più ricchi. Alle volte ci si lamenta perché l'economia cresce troppo poco, ma è un fatto che cresce. Infatti, se esaminiamo l'indice economico più comune, il prodotto interno lordo (PIL), vediamo che in tutti i paesi occidentali il PIL per persona è in continuo aumento e non ha mostrato nessuna inversione di marcia. Secondo il PIL, nella media, stiamo diventando tutti più ricchi, ma il problema sta, appunto, nella "media". Il PIL soffre del problema di fondo di tutte le statistiche e che Trilussa aveva già identificato: la statistica può dire benissimo che tu mangi un pollo al giorno, anche se non hai visto neanche un osso, perché c'è un altro che ne mangia due. Il PIL aggrega insieme tutti gli elementi dell'economia e non è fatto per misurare spostamenti di ricchezza, anche enormi, fra un settore della società a un altro. Niente di strano che il PIL non si sia accorto della grande inversione di marcia mostrata dal Gini.

Quindi, se è possibile che la ricchezza media della nostra società sia in aumento, sembrerebbe anche che le fasce sociali più deboli abbiano beneficiato soltanto in parte, o per niente, di questo aumento. Questa interpretazione è confermata dall'esame di altri indici economici più legati ad aspetti particolari della distribuzione del reddito. Per esempio, i salari minimi reali hanno seguito la stessa tendenza dell'indice di Gini, raggiungendo un massimo verso la metà degli anni '70 negli Stati Uniti, per poi calare progressivamente. Questo sembrerebbe indicare che i più poveri, ovvero quelli che vivono dei salari minimi, non solo non hanno beneficiato dell'aumento medio di ricchezza, ma sono diventati addirittura più poveri. E i salari minimi sono solo uno di una serie di indicatori economici che hanno mostrato la stessa inversione di tendenza. I salari medi, l'indebitamento delle famiglie, il debito pubbico e altri indici, hanno tutti cambiato tendenza insieme al Gini, indicando una condizione di stress generalizzato della società.

Sappiamo che forti differenze sociali creano una situazione sfavorevole alla democrazia. Portate all'estremo, forti differenze sociali ci ricordano il Medio Evo, quando la società era divisa fra nobili e servi della gleba. Era una situazione indubbiamente piacevole per i nobili, ma probabilmente assai meno per i servi della gleba. Per questo, la democrazia - ovvero dare il voto ai servi della gleba, era fuori questione. Senza arrivare a questi estremi, l'attuale impoverimento di vasti settori della società crea senza dubbio una diffusa condizione di stress e di insicurezza. In questa situazione, molti politici hanno scoperto che possono ottenere voti spaventando la gente, una tattica che sembra essere pagante e che viene estesamente usata un po' ovunque. Non c'è troppo da stupirsi, quindi, se l'elettorato ha perso la serenità che sarebbe necessaria per fare scelte lungimiranti e ponderate.

Un'obiezione che si può fare a questo punto è che, se i poveri stanno diventando più poveri, questo è vero soltanto in senso relativo. I poveri di oggi hanno cose che i servi della gleba di una volta non si sognavano neanche: televisori a colori, internet, telefoni cellulari, condizionatori d'aria, eccetera. Perché dunque dovrebbero lamentarsi o sentirsi stressati? Può darsi, ma ai fattori positivi possiamo contrapporre fattori negativi e che ci affliggono molto di più di una volta: polveri sottili nei polmoni, pesticidi nel sangue, minacce terroristiche, ingorghi stradali, insicurezza del lavoro, degrado generale dei servizi, sanità, scuola, assistenza sociale, eccetera. L'internet a banda larga in casa ci fa dimenticare l'inquinamento atmosferico? E' difficile pensare che avere un telefonino con lo schermo a colori in tasca possa compensare per la precarietà del lavoro.

Si tratta ora di domandarsi che cosa ha causato la grande inversione di marcia. Ci deve esssere stato qualche cambiamento veramente importante negli anni '70 per aver invertito la tendenza a una maggiore uguaglianza sociale che, in Occidente, durava da più di un secolo. Cosa è successo? Un complotto delle multinazionali? Una operazione politica da parte di oscure forze della reazione? E' colpa degli gnomi di Zurigo? Dei cavalieri Templari? Del grande vecchio di Montecatini?

Le interpretazioni da parte degli addetti ai lavori sono molteplici e spesso si basano sui grandi cambiamenti dovuti allo sviluppo della globalizzazione. Secondo la teoria, la liberalizzazione dei mercati planetari ha messo in diretta concorrenza le fasce sociali più deboli di diversi paesi. Questo ha causato un effetto "vasi comunicanti" che ha colpito particolarmente i più poveri in Occidente, fino ad allora protetti dalle barriere doganali. Sicuramente, c'è qualcosa di vero in questa interpretazione. Rimane però da domandarsi come mai l'inversione di tendenza sia avvenuta proprio negli anni '70.

Su questo punto, vorrei proporre un'interpretazione basata sull'evoluzione del mercato del petrolio. Un cambiamento epocale è, in effetti, avvenuto verso la metà degli anni '70. Questo cambiamento è stato la crisi della disponibilità di petrolio che è stato chiamato la grande "crisi del petrolio." Sono stati circa 10 anni di scarsità di greggio, prezzi alle stelle, inflazione a due cifre, code ai distributori e altri problemi. Verso la metà degli anni '80, i prezzi del petrolio si abbassarono e l'impressione generale fu che la crisi fosse stata un puro incidente di percorso, un'anomalia della nostra progressione storica verso il sempre di più e il sempre di meglio, un brutto scherzo giocatoci da un gruppetto di sceicchi malvagi. E invece, a distanza di trent'anni dall'inizio della crisi, ci accorgiamo che era finita solo apparentemente. I prezzi reali del petrolio non sono mai scesi al livello di prima della crisi e oggi stanno ritornando ai valori che avevano a quel tempo.

La crisi degli anni '70 non era un incidente di percorso; era il primo sintomo degli effetti sull'economia del graduale esaurimento planetario delle risorse minerali. Prima della crisi, il consumo di petrolio saliva del 7% all'anno da quasi un secolo, cosa che era stata resa possibile da scoperte di sempre nuovi e abbondanti pozzi. Ma le nuove scoperte avevano raggiunto il loro massimo verso la metà degli anni '60 e da allora avevano cominciato un declino irreversibile, che dura tuttora. Senza grandi nuove scoperte, non era possibile mantenere i ritmi di crescita di un tempo. La causa scatenante della crisi fu l'inizio del declino della produzione di petrolio negli Stati Uniti, nel 1971. Il "colpo di aggiustamento" dei prezzi provocò una riduzione dei consumi dopo il massimo raggiunto nel 1979. Verso la metà degli anni '80, i consumi di petrolio ricominciarono a salire, ma a un ritmo molto più moderato (1%-2% all'anno). I valori del massimo di produzione del 1979 sono stati raggiunti di nuovo soltanto negli ultimi anni. Sembra che ora, con l'ulteriore esaurimento dei pozzi, siamo di fronte a un ulteriore colpo di aggiustamento che potrebbe essere nettamente più brutale del primo.

La crisi degli anni '70 rappresentava davvero un momento epocale nella storia del petrolio e in tutta la storia economica planetaria. E' stato il momento in cui il petrolio ha cessato di essere quella risorsa abbondante e a buon mercato - quasi gratis - che era stata fino ad allora. Dal momento della crisi è stato necessario destinare risorse sempre più importanti al petrolio per mantenere il ritmo di estrazione. E' stato necessario lavorare più duramente per cercare nuovi pozzi, è stato necessario estrarre da pozzi più piccoli e più profondi (e quindi più costosi); è stato necessario costruire nuove raffinerie per trattare il petrolio di cattiva qualità sul quale ormai ci si doveva basare. E' stato necessario costruire una nuova infrastruttura per utilizzare risorse diverse dal petrolio (gas e carbone) che, peraltro, sono riuscite a sostituirlo soltanto in piccola parte.

Tutti questi cambiamenti rappresentano dei costi immensi e, di conseguenza, portano la necessità di allocare risorse in quantità altrettanto immense. Queste risorse dovevano essere prese da qualche parte, ovvero dovevano essere tolte ad altre attività. Come sappiamo dalla storia, quando si tratta di togliere risorse a qualcuno, la scelta cade sempre sui più poveri. Non solo, ma la "guerra fra poveri" che ha colpito le fasce deboli in occidente è anche quella da correlare alla necessità di grantire l'accesso alle riserve petrolifere rimanenti abolendo o riducendo le barriere doganali. Comunque la si veda, l'inizio della fase di scarsità petrolifera potrebbe essere il fattore che ha cambiato è sta cambiando profondamente la struttura sociale di tutti i paesi del mondo

Non possiamo provare questa ipotesi al di là di ogni dubbio, ma ci può servire come una chiave interpretativa interessante della situazione attuale. Se l'aumento delle diseguaglianze sociali è causato dalla riduzione del flusso di risorse nel sistema economico, ne consegue che la cura per la democrazia malata non sta in nuove regole di voto. Sta nell'invertire la tendenza e nel trovare nuove risorse che facciano ritornare la società alla prosperità diffusa degli anni prima della crisi. L'esaurimento non è un problema soltanto del petrolio ma di tutte le risorse minerali, quindi nuove risorse le possiamo trovare soltanto nelle energie rinnovabili. E' una sfida immensa, ma possiamo vincerla se ci rendiamo conto di cosa abbiamo davanti.

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Alcuni dati presi da

Economia del benessere e distribuzione del reddito
Renata Targetti Lenti




Ecco alcuni dati comparativi dei valori dell'indice di Gini nel 2004 presi da http://www.absoluteastronomy.com/reference/gini_coefficient (non so quanto siano affidabili, il fatto di dare tre decimali mi pare sospetto, ma nel complesso dovrebbero essere dati qualitativamente corretti )

Hungary: 0.244
Denmark: 0.247
Japan : 0.249
Sweden 0.250
Germany: 0.283
India 0.325
France: 0.327
Canada: 0.331
Australia: 0.352
UK: 0.360
Italy 0.360
USA: 0.408
China: 0.447
Russia: 0.456
Guatemala: 0.483
Hong Kong 0.500
Mexico 0.546
Chile: 0.571
Namibia: 0.707